III DI AVVENTO - Gv 5, 33-39
Non possiamo comprendere queste parole del vangelo se non collocandole nel loro contesto (Gv 5,33-39). È la festa di Pentecoste, cinquanta giorni dopo la Pasqua – è un sabato – e Gesù ha appena compiuto la guarigione di un infermo alla piscina di Betzatà in Gerusalemme. Ricorderete come congedò l’infermo una volta guarito ricordandogli di portarsi appresso la sua barella! E subito si scatenò la polemica. I farisei, i capi, i sacerdoti lo attaccano: «Perché fai queste cose di sabato? non conosci cosa dice la Legge?». E poi la domanda delle domande: «Chi ti credi di essere?».
La risposta di Gesù è interessante e sorprendente e, almeno nei pochi versetti di oggi, si concentra su due aspetti.
Il primo è in riferimento al Battista, ed è per questo che ci viene proposto nella liturgia di avvento, infatti Gesù sembra dire: chi credo di essere? Dovreste saperlo: Avete sentito di Giovanni e siete andati a sentire la sua parola nel deserto… ebbene, egli era la lampada che arde e risplende. Una bella definizione, un bel modo di descrivere il Battista: lampada che arde! Ma chi ascoltava sapeva che Gesù stava facendo una citazione pericolosa, perché tratta dal libro del Siracide nel quale quando si tratta di parlare degli uomini illustri, arrivati ad Elia scrive: Allora sorse Elia profeta, come un fuoco; la sua parola bruciava come torcia (48,1). Gesù, accostando Giovanni Battista a Elia, afferma che è appunto lui quel profeta, il primo che sarebbe tornato per introdurre il Messia nella storia. Peccato che quel profeta di fuoco, la cui parola bruciava come torcia, sia stato ridotto a una lampada cui rivolgere uno sguardo rapido e fugace.
E Gesù incalza: Io però ho una testimonianza superiore a Giovanni, ed è il secondo aspetto del vangelo di oggi. Ma se non hanno riconosciuto in Giovanni il ritorno di Elia, come potranno dare fiducia a Gesù? E lui alza la posta, non cerca di convincerli giocando al ribasso, anzi: Le opere che il Padre mi ha dato da compiere, quelle stesse opere che io sto facendo, testimoniano di me che il Padre mi ha mandato.
Gesù parlando di sé e del suo rapporto col Padre, usa il vocabolario di un qualunque figlio del suo tempo, cioè partendo dalla metafora del padre che insegna al figlio il mestiere. Se andiamo a leggere il cap. 5 sia il verbo “fare” che il nome “Padre” ricorrono sette volte, dove il fare del Padre viene trasmesso al Figlio, come succedeva allora in Israele e forse ancora oggi in qualche parte del mondo, quando un genitore insegna il suo stesso lavoro al proprio figlio.
L’artigiano trasmetteva al figlio la sua arte e lo faceva certo come segno di fiducia e di affetto, ma soprattutto come scuola di vita e per la vita: in fondo il figlio imparava a sostenersi ed era reso capace a sua volta di mettere su famiglia. E se il figlio era intelligente apprendeva molto dall’osservare ciò che il padre faceva e come lo faceva … se era furbo in qualche modo “rubava il mestiere”.
Non è più così per noi. Anche perché per descrivere il rapporto padre-figlio avremmo dato più enfasi ai sentimenti, alla relazione affettiva… per noi è più importante la qualità del legame col padre che non il lavoro che lui ci insegna. Proprio perché è un problema oggi, sono questioni quanto mai «sensibili» sia quella del rapporto col padre, che quella del lavoro.
C’è un bisogno drammatico di uomini che siano padri, che siano capaci di trasmettere il senso delle cose, il senso del fare e della responsabilità. Che sappiano accompagnare i figli al senso del mondo e della vita. Ma c’è anche un bisogno enorme di lavoro, bisogno che non sembra avere prospettive di immediata, né di facile soluzione.
Eppure anche se siamo in questa distanza culturale e sociale dalle parole di Gesù, il loro contenuto è vero ancora per noi. Se ci chiediamo quale sia il lavoro del Padre che è Dio e che Gesù continua attraverso le opere che compie, basta guardare quello che fa. E cosa fa il Cristo? Proprio ciò che gli viene contestato: guarisce un infermo di sabato. Ora la Scrittura afferma che di sabato l’uomo riposa, ma dice anche che Dio lavora di sabato. Il Signore riposa anche lui, ma il settimo giorno. Il sesto giorno crea l’uomo, lo fa vivere. Questo è il lavoro di Gesù, figlio di Dio, e lavora anche di sabato perché il suo lavoro è divino: far vivere! La vita è il lavoro di Dio. L’attività di Dio sin dal primo istante della creazione è di dare vita e Gesù porta avanti l’opera del Padre superando ogni ostacolo, ogni barriera che impedisce all’uomo di vivere, di vivere bene, con gioia. Gesù continua l’opera del Padre per la vita dell’uomo.
Per Gesù la prima cosa è la vita, non la religione, non il culto. Questo è il lavoro del Figlio. L’essere figlio non è una condizione da minorenni, è la grandezza della nostra identità, è il vertice della ricerca di Dio, il culmine della vita. Nella mentalità comune la condizione filiale coincide con la minorità, una mancanza di autonomia e di maturità, come se per essere adulti, fosse necessario smettere di essere figli o figlie.
Gesù ci insegna che il figlio è colui che fa il lavoro del Padre. E se Gesù ci insegna che il lavoro del Padre è la vita, l’amore, il perdono… Se noi siamo figli di un Dio così, il massimo che possiamo cercare non è tanto l’estasi egoistica di un’appropriazione privata di Dio, piuttosto di arrivare a sentire effettivamente gli altri che sono suoi figli e sue figlie come fratelli e sorelle.
Questa è quella che Isaia (51,1-6) chiama «la giustizia di Dio». Ascoltatemi voi che siete in cerca di giustizia… Guardate alla roccia da cui siete stati tagliati, alla cava da cui siete stati estratti. Se la roccia è Dio, noi tutti veniamo da lì, siamo cavati da lì come lastre di pietra, di marmo o di altro minerale. Ma sempre da lì veniamo. Nel momento in cui accogliamo il nostro essere figli, riconosciamo l’umanità in noi stessi e negli altri allora da quel momento smettiamo di nutrire il fantasma della paura, della separatezza, per vivere della giustizia di Dio. Ma se dimentichiamo la giustizia di Dio, se uno dimentica la roccia da cui è stato tagliato, se dimentichiamo di essere figli come se fossimo capaci di darci la vita da soli, finiamo per crederci chissà chi e non possiamo certo costruire rapporti fraterni.
Mentre è proprio questo quel profumo di cui ci parlava Paolo (2Cor 2, 14-16): il profumo di Cristo. Non è il profumo del singolo, dell’individuo, del protagonista, dell’eccentrico, di chi vuol attirare l’attenzione su di sé, ma il profumo del figlio che si dona, il profumo del fratello che si spende per costruire un’umanità più fraterna, capace di continuare l’opera del Padre.
Domandiamoci se in questo tempo, preparandoci al Natale, le nostre azioni, le nostre opere, il nostro lavoro… vanno in questa direzione. Lavoriamo del lavoro di Dio, del lavoro di Gesù o per noi stessi?