V DOPO L’EPIFANIA - Gv 4, 46-54
Potremmo accontentarci di leggere questa pagina di vangelo e di riceverla come un racconto del passato, certo un racconto particolare perché si tratta del fatto che Gesù compie un miracolo, un segno straordinario dice Giovanni: guarisce il figlio morente di un funzionario del re. Ma si tratta appunto di una cosa che è accaduta allora e oggi non accade più: per quanto abbiamo pregato e chiesto al Signore una guarigione per noi, per i nostri cari, un intervento straordinario, non so quanti possano dire di essere stati esauditi.
Questa pagina ci pone più interrogativi che consolazione! Perché Gesù non continui a compiere segni come questo, sai quanta gente sarebbe più disposta a credere? Perché non continui a salvare il dolore del mondo? Tu che proprio in questa pagina ascolti un dei dolori più grandi come quello di un genitore che vede morire un figlio. Siamo dinnanzi a un dolore talmente grande che non abbiamo nemmeno un nome per dirlo. Se un coniuge perde il partner si dice che rimane vedova/vedovo; se un figlio perde i genitori diciamo che è orfano… ma per un genitore che perde un figlio non abbiamo nemmeno un nome per dire quel dolore tanto esso è grande.
E poi questo racconto ci pone interrogativi anche dal punto di vista religioso, nei rapporti con Dio, perché se per un verso il funzionario reale si può considerare fortunato, quanti altri invece hanno pianto e subìto il lutto, la morte di una persona cara. Dio dunque appare arbitrario: perché alcuni li guarisce, altri no? Sembrerà semplicistico, ma vorremmo conoscere il pensiero di Dio, perché noi ci fidiamo di lui, ma alcune volte proprio non lo comprendiamo, chissà cosa ha in mente!
E allora si scatena quel senso religioso per cui facciamo a gara a conquistarci la benevolenza di Dio, torniamo a osservare le regole per poterci meritare un miracolo e inondiamo l’Eterno di novene, di litanie, di catene varie… atteggiamento tra l’altro che molti rifiutano, aborriscono al punto da prendere le distanze da Dio, se non a rifiutare la sua esistenza perché un Dio così è la proiezione dei nostri bisogni, la compensazione delle nostre povertà… il frutto della nostra ansia e paura.
Ma, c’è una piccola domanda che ci deve far pensare: perché Giovanni ci racconta questo miracolo? Perché ci tiene a dire che questo di Cana di Galilea fu il secondo segno di Gesù? Perché Giovanni vuole che anche noi sappiamo di questo fatto?
L’intendimento del vangelo sta proprio qui. Quando risponde al funzionario che gli chiede di guarire il ragazzino, Gesù dà una risposta enigmatica che si distingue per un particolare: Se non vedete segni e prodigi, voi non credete, non è rivolta soltanto all’ufficiale regio, ma anche direttamente ai lettori. Sorprende infatti leggere un pronome al plurale, un voi al posto del tu. Un voi che può riguardare chi c’era intorno, i presenti, ma quel voi siamo anche noi.
E ci riguarda perché appunto anche noi siamo tra quelli che, chi più chi meno, cerca segni e miracoli, e suona quindi come una critica aperta di Gesù nei confronti di chi fonda la propria fede sui miracoli.
Ma non solo, perché lo snodo centrale del racconto, il momento in cui si produce un cambiamento l’abbiamo al v.50 quando Giovanni scrive che Gesù gli rispose: tuo figlio vive. Quell’uomo credette alla parola che Gesù gli aveva detto e si mise in cammino. Il funzionario scende per quei 25 km che separano Cana a Cafarnao, scende lui e non Gesù, scende senza altra garanzia che la parola udita da lui.
Cosa accade che a Cafarnao nella casa del funzionario Gesù non è presente se non con la parola che l’ufficiale ha udito, alla quale ha creduto e che ormai abita in lui. Questa assenza di Gesù in persona e questa presenza della sua parola è piena di significato per i lettori cui Giovanni si rivolge.
E quei lettori siamo anche noi, perché come coloro che l’evangelista Giovanni aveva sotto gli occhi, anche noi non vediamo più quei segni che i contemporanei di Gesù avevano potuto constatare… però abbiamo la sua parola sempre presente, abbiamo la sua parola nel Vangelo, abbiamo una parola che dà vita.
Gesù non fa’ una promessa: tuo figlio vivrà…, ma tuo figlio vive, ed è un’espressione che viene ripetuta tre volte: tuo figlio vive! Questa è l’esperienza di chi si fida della parola di Gesù e che non ha bisogno di altre prove, non cerca più il miracolo.
Il racconto diventa allora un incoraggiamento per una comunità che aveva bisogno di essere sostenuta sotto la pressione di chi voleva vedere fenomeni tangibili per credere. Questo è un desiderio umano, perché l’uomo è attratto spontaneamente dal meraviglioso e vorrebbe fondare così la sua fede. Secondo Giovanni, invece, solo i segni di Gesù costituiscono un solido fondamento.
Chi crede in lui ha la vita. Questa vita non viene confermata dall’esterno con miracoli spettacolari che la sottraggono alla condizione umana di tutti, ma dalla parola di Gesù che ha vinto la morte.
Teilhard de Chardin asseriva giustamente che il miracolo non è un aiuto alla fede, anzi nella nostra epoca segnata dalla cultura scientifica è diventato una difficoltà, come dicevamo all’inizio, se per miracolo intendiamo qualcosa che sconvolge e sovverte le leggi della creazione, ma in realtà il secondo segno di Cana ha un altro intento che non quello di sovvertire le leggi di natura, perché chiede di non far dipendere la fede se non dalla parola di Gesù mediante la quale è data la pienezza della vita.
Quando diciamo che la fede è un cammino, pensiamo a quel funzionario regio che non ha nient’altro che la parola di Gesù cui aggrapparsi. Non è stato così anche il cammino di Abramo come ci ricordava Paolo nella lettera ai Romani? Abramo non ha chiesto segni a Dio, ha obbedito alla sua parola ed è la fiducia che Abramo ha riposto nella parola che lo ha messo in cammino.
Il vangelo non lo dice, ma anche il fatto che il funzionario reale si sia staccato dal figlio morente per andare da Gesù – e ci voleva un giorno di strada a piedi – questo staccarsi dal figlio per lui deve essere stato doloroso come per Abramo era stato doloroso salire il monte per il sacrificio di Isacco, ma è stato l’atto di fede che gli ha permesso di ritrovare il figlio vivo.
Questo padre, sciogliendo le proprie mani dalla stretta con cui teneva il figlio morente per andare a presentarle vuote e impotenti a Gesù, ha saputo trasmettere al figlio e a tutta la sua famiglia la fede nella vita. Grazie alla fede in Gesù ha ritrovato il senso della sua paternità. Cos’è un padre se non chi genera il figlio alla vita, alla vita che non muore?
Fidandoci della sua Parola impariamo anche noi a «scendere» come ha fatto il funzionario del re, a scendere e non a salire, ovvero a cercare visioni, apparizioni, effetti speciali che ci convincano di più. Con la sola Parola del Vangelo scendiamo nel cuore del dolore del mondo, scendiamo nelle contraddizioni e negli anfratti disumani delle nostre città, capaci di condividere con continua a piangere la morte, l’ingiustizia, l’oppressione.
Guardate che parte del mondo è felice di costruire muri di paura, di leggi, di frontiere, di controlli e poi magari sono gli stessi che vanno in chiesa a pregare Dio perché faccia quello che loro vogliono contro altri esseri umani.
A costoro e a quella parte di noi che magari potrebbe condividere quel modo di pensare affido la visione di Isaia nella prima lettura. Con queste parole il profeta chiude il suo libro e lo fa offrendoci una visione che dice la direzione della storia e del mondo: Io verrò, dice il Signore, a radunare tutte le genti e tutte le lingue… porrò in essi un segno, e qual è questo segno? Manderò i loro superstiti … e segue poi un elenco per noi incomprensibile di località cui non sapremmo dare un riferimento geografico preciso, ma che abbracciano il mondo conosciuto di allora a partire dalla Spagna e le isole del Mediterraneo (Tarsis), la costa africana del mar Rosso (Put e Lud), l’estremo nord delle coste del mar Nero (Mesec, Ros e Tubal) e infine la Grecia (Iavan)].
Può essere una visione ideale, utopistica, lontana dal realismo della politica internazionale, ma ci richiama indubbiamente al fatto che è molto più quello che ci unisce di ciò che può dividerci se non dimentichiamo di essere tutti figli di Dio e se vogliamo che tutti i suoi figli vivano, non crediamo che sia il moltiplicarsi dei miracoli a far crescere la fede nel mondo, piuttosto la nostra capacità di amare, di prenderci cura, di condividere, perché sono questi i segni della fede che costruiscono come diceva Isaia la fraternità umana.
(Is 66,18-22; Rm 4, 13-17; Gv 4, 46-54)