VII DOPO PENTECOSTE - Gv 16, 33 - 17, 3
Il Vangelo non è per anime devote e molli. Seguire Gesù non è adatto per pusillanimi che temono la lotta e la battaglia. Anzi, la parola di Dio oggi è tutta intrisa di un linguaggio forte, in tutte le tre letture si dice che c’è chi vince e chi perde, si narra di battaglie e di tribolazioni… addirittura nella prima lettura abbiamo sentito di una strage, di un Giosuè, successore di Mosè, assetato di vendetta! Eppure dopo la lettura abbiamo risposto tranquillamente: “Rendiamo grazie a Dio”.
Ma come facciamo a dire così per uno che arriva perfino a voler fermare il sole al fine di fare strage di nemici? Vorrebbe fermare il sole quando ha già vinto e gli avversari sono in fuga… per sterminarli tutti!
Certo deve essere stata dura per lui succedere a Mosè. Giosuè ha avuto un’eredità pesante: prendere in mano il governo di un popolo che ancora faceva fatica a pensarsi tale perché alcune delle dodici tribù volevano la terra in quel posto là, altre si erano già installate di qua dal Giordano… altre ancora non avevano capito che la terra non gliela regalava nessuno, ma dovevano conquistarsela. Insomma tenere testa a tutti non doveva essere facile. Non facciamo fatica ad immaginare i discorsi della gente sotto le tende, lontani da orecchie indiscrete: «Se ci fosse stato qui Mosè avrebbe fatto così, avrebbe detto cosà… e questo Giosuè chi si crede di essere?». La condizione di Giosuè non era per niente facile, doveva dimostrare di essere all’altezza della responsabilità, doveva conquistarsi la fiducia della gente.
L’occasione gli viene fornita dagli abitanti di Gabaon che lo tirano in mezzo per eliminare i loro nemici di sempre, gli Amorrei. A Giosuè non sembra vero: in campo militare non temeva il confronto con Mosè. E poi una guerra è un ottimo antidoto per compattare gli animi divisi tra di loro. Un capo popolo sa come distrarre dalle tensioni e governare i mal di pancia della gente, basta trovare un nemico sul quale scaricare la rabbia, l’odio, le frustrazioni e risolvi gran parte dei tuoi problemi.
Così fa Giosuè. Con il suo esercito percorre di notte i 20 km che da Galgala (vicino a Gerico) salgono a Gabaon (compiendo un dislivello di 900 m) per affrontare un esercito di ben cinque re amorrei alleati tra loro. Uno contro cinque! Astutamente Giosuè fa marciare i suoi di notte per non svelare ai nemici quanto esigua fosse la consistenza del suo esercito.
Ebbene quando Giosuè arriva a Gabaon, a ovest dove sono accampati i nemici c’è ancora la luna, mentre a est, da dove arriva lui, sta sorgendo il sole e allora comincia ad avere paura e si rivolge al Signore perché il sole aspetti a fare luce e la luna invece permanga in quella luminosità che permette di vedere, ma non troppo, così da portare a buon fine la battaglia.
Pensate un po’ che questo racconto biblico venne usato contro Galileo Galilei per contestare il sistema copernicano (1543) e a fondamento della difesa di quello tolemaico (II sec. d. C.)… e anche qui lotte, battaglie… Ma è questo quello che il Signore ci dice? è così che dobbiamo leggere la storia? Di che battaglia stiamo parlando? Di quali lotte?
Ricordiamo tutti un altro fatto famoso di Giosuè, come affrontò la conquista di Gerico. Di fronte alle possenti mura di difesa della città, Giosuè aveva preparato l’esercito, aveva affilato le spade… ma quello che il Signore chiede di fare non è altro che una processione. Per sei giorni girano intorno alle mura in silenzio. Sfilano il popolo, i sacerdoti e i portatori dell’arca dell’alleanza intorno alle mura della città. Solo al settimo giorno, ad un segnale convenuto, danno fiato alle trombe e lanciano l’urlo di guerra come per dare inizio al combattimento… e cosa succede? le mura spariscono e Gerico è conquistata.
È evidente che siamo di fronte a una lettura teologica, a una comprensione più profonda delle questioni della vita umana e della sua dignità. Gli amorrei nemici di Giosuè sconfitti a Gabaon e consegnati nelle sue mani, così come la città di Gerico e i suoi abitanti non sono altro che l’immagine del nemico per eccellenza della fede che è l’idolatria e come ben sappiamo l’idolatria è la tentazione di chi crede, l’idolatria è tutta interna a Israele, e che Israele proietta sugli altri che di fatto sono idolatri senza colpa perché Dio non si è rivelato a loro.
Questo per dire che il nemico è dentro di noi, nelle nostre anime, nelle nostre coscienze. La battaglia è anzitutto col nemico che ci abita. La lotta è contro quei muri che abbiamo anzitutto nella testa. È più doloroso chiamare le cose col loro nome e accettare con onestà le nostre paure, le nostre bramosie e scoprire che non siamo quello che vorremmo essere… che non proiettare sugli altri le nostre frecce, i nostri muri.
Il nemico vuole il posto di Dio, vuole contare più di ogni altra cosa, vuole dominarci nel mentre ci dividiamo e schiacciamo gli altri. Il nemico è diabolico, letteralmente inteso come colui che divide, che spacca, che lacera l’essere umano, il tessuto sociale, la fraternità umana.
Di questo è consapevole il profeta di Nazaret, quando qualche secolo dopo Giosuè si affaccia sulla scena del mondo. Porta lo stesso nome del generale ebreo, ma la traduzione per non confonderli ha voluto che si pronunciassero diversamente: Giosuè e Gesù. Entrambi hanno a che fare con la lotta e la battaglia nella vita, ma la differenza è sostanziale.
Basta leggere il v.33, quando Gesù afferma: «Nel mondo avete tribolazioni, ma abbiate coraggio: io ho vinto il mondo» (16,33). Gesù ha vinto il mondo? Cosa significa? Quale mondo ha vinto se di lì a poche ore l’hanno inchiodato sulla croce?! chi ha vinto che cosa?
Noi diciamo questo perché abbiamo dentro una convinzione che ci viene trasmessa culturalmente e socialmente fin da quando succhiamo il latte della mamma, vale a dire che vince sempre il più forte, vince il prepotente. Se sei disarmato perdi, se non fai vedere i muscoli sei finito. Ed è evidente che è così, perché da che mondo è mondo la storia la raccontano i vincitori. Chi di noi ha mai letto un capitolo di storia ufficiale scritto dagli sconfitti?
Eppure la croce di Gesù fa da spartiacque nella storia del mondo: misuriamo il tempo da prima e dopo Cristo, come a dire che il Vangelo segna un possibile cambiamento di paradigma. Certo è un possibile cambiamento perché anche la chiesa nella storia non sempre è stata fedele al Vangelo, un Vangelo che d’altronde il Signore ha affidato alle nostre povertà e infedeltà e lui lo sapeva, infatti non dice che la chiesa vince il mondo, che il Papa vince il mondo, che l’istituzione vince il mondo, ma che lui vince il mondo. Anzi dice: Io ho vinto il mondo. Parla come di un’azione già avvenuta, di una vittoria già assegnata.
Queste parole il Signore le pronuncia nel contesto dell’Ultima Cena.
Spezzando il pane Gesù dice di aver già vinto il mondo: noi non abbiamo la pretesa di vincere, non è nostro scopo umiliare l’altro, chi non la pensa come noi… non c’è bisogno di vincere il sistema del dominio perché l’ha già vinto lui. A noi però Gesù chiede espressamente un po’ di coraggio: Coraggio io ho vinto il mondo!
Coraggio che significa non sottovalutare quello che sta accadendo per voltarci dall’altra parte e rifugiarci in una religione falsamente consolatoria.
Non ci vuole coraggio per fermare le navi dei disperati che rischiano la vita cercando la vita, per fare quello basta la codardia e la prepotenza. Ci vuole coraggio invece per fermare le navi che attraversano le nostre acque cariche di armi e di droga e per fermare le navi o gli aerei con carichi di materie prime che vengono dall’Africa, come il preziosissimo coltan, elemento necessario anche per i cellulari e che vengono scavati e raccolti da persone rese schiave.
Occorre coraggio per non smettere la lotta alle mafie, alla corruzione e a quei ladri che con l’evasione fiscale svuotano gentilmente le tasche degli italiani.
Non ci vuole coraggio per ripulire le strade delle nostre città dalle ragazze costrette a venire da noi con false promesse, basta l’ipocrisia benpensante. Ci vuole coraggio invece per cambiare tutte quelle persone che cercano sesso schiavizzando centinaia di ragazze straniere.
Non ci vuole coraggio a respingere alle frontiere donne, uomini e bambini, basta la prepotenza e la violenza, mentre ci vuole il coraggio anche delle istituzioni, come ha fatto in questi giorni il Consiglio Costituzionale francese per dire che aiutare, soccorrere, accogliere non è un reato: la fraternità è un principio dal valore costituzionale!
Abbiamo anche noi bisogno di coraggio, quel coraggio che si fonda sulla vittoria di Gesù per essere capaci di quella stessa fraternità per cui non combattiamo con la violenza e l’odio chi non la pensa come noi, perché è comunque anch’egli un fratello in umanità, ma combattiamo con l’argomentazione, l’informazione, la cultura.
Non lasciamoci irretire nella logica del mondo dove vince il forte e il debole è schiacciato. In questo senso il vangelo non è per anime molli, né per pusillanimi, ma per chi è disposto a lottare e a combattere contro la mentalità dilagante. Siamo coraggiosi, non c’è nulla – dice Paolo – che possa separarci dall’amore di Cristo. Nulla.
(Gs 10, 6-15; Rm 8,31-39; Gv 16,33 – 17,3)