VII DI PASQUA o Domenica dopo l’Ascensione - Gv 17, 11-19


Mi ha colpito come in un testo così intimo e intenso, qual è la preghiera di Gesù al Padre, di cui abbiamo meditato alcuni versetti due domeniche fa, un testo che esprime un grande movimento d’amore che come le onde del mare si insegue e si rinforza di versetto in versetto: dal Padre al Figlio, dal Figlio a noi, da noi agli altri, dagli altri all’universo, fino a quando tutti siamo uno! Ecco sorprende, in un testo come questo, un inciso che potrebbe anche non essere notato, quando Gesù afferma: Nessuno di loro è andato perduto, tranne il figlio della perdizione.

Gesù sta davanti al Padre e mentre lo prega per coloro che ha avuto da lui in consegna, dicendo che li ha custoditi tutti, deve riconoscere però che uno non è riuscito a salvarlo. Tutti li ha custoditi, tranne il figlio della perdizione. È ovvio che il pensiero vada a Giuda, così come supponiamo stesse facendo Gesù. Però questa annotazione fa pensare, perché questa era la sua missione, come aveva detto a Gerico dopo l’incontro con Zaccheo: Il figlio dell’uomo è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto (Lc 19,10).

Se poi andiamo a leggere il cap. 15 di Luca per otto volte si dice di qualcuno che era perduto e che è stato ritrovato: al v.4 è la pecora smarrita ad essere ritrovata dal pastore grazie alla sua determinazione, al v.8 è la moneta ad essere perduta e ad essere ritrovata per l’impegno della donna nel ribaltare la casa; infine al v.24 è il figlio perduto che viene ritrovato grazie all’amore ostinato di un padre che non si rassegna.

Voi direte, ma Luca aveva un debole per la misericordia… e allora si capisce questa insistenza, però anche lo stesso Giovanni, quando racconta dei colloqui notturni a Gerusalemme tra Gesù e Nicodemo, ad un certo punto il Signore esclama: Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo figlio, perché chiunque crede in lui non vada perduto (3,16).

Ma è soprattutto al cap. 10, dove Gesù afferma con determinazione: Le mie pecore non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano.

Nonostante la sua cura e premura, una però gli è scappata di mano! In realtà uno è andato perduto.

Cos’è il vangelo se non la ricerca di chi si è perduto? Non è questo il volto di Dio? Eppure anche Gesù deve rassegnarsi al fatto che non solo debba avere dei nemici che dall’esterno gli si oppongono, ma anche tra le fila di coloro che lui ha cresciuto, aiutato e ha accolto come amico, c’è chi si può perdere, il figlio della perdizione.

E questa deve essere stata per il gruppo dei discepoli un’esperienza terribile, una vergogna pesante al punto che ci raccontano gli Atti, Pietro vorrebbe coprirla e cancellarla chiedendo alla comunità la sostituzione di Giuda: occorre nominare qualcuno che prenda il posto di chi si è perduto.

Se guardiamo all’episodio dal punto di vista storico, ci chiediamo: che bisogno c’era di tenere fisso il numero degli apostoli? In prospettiva storica appare del tutto inutile fissarsi sul numero dodici perché nel tempo sarebbe stato ampiamente superato, come appunto verifichiamo oggi: se i successori degli Apostoli sono i vescovi, nel mondo ne abbiamo più di cinquemila.

Pietro aveva bisogno di compattare il gruppo stringendosi intorno a testimoni della risurrezione, o meglio del Risorto, perché la risurrezione non l’ha vista nessuno. Era già dura per lui fare i conti con la sua debolezza, il suo rinnegamento, pareva del tutto inaccettabile che uno degli intimi si fosse irrimediabilmente perduto!

È dura da accettare ma ci si può perdere, si può fallire anche nella chiesa, anche come discepoli, anche come apostoli, come vescovi, preti, religiose, laici… questa è la consapevolezza di Gesù che lo porta a rivolgersi al Padre pregando per i discepoli e dicendo due cose che sembrano in contrasto: Io non sono più nel mondo, essi invece sono nel mondo (v.11) e poi: Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo (v.16).

Sono due cose diverse: essere nel mondo e essere del mondo.

Il fallimento, il figlio della perdizione è colui che non riesce a tenere insieme le due dimensioni: essere nel mondo, ma non essere del mondo. La nostra è una fede che ama la terra perché abitiamo la terra, ma senza appartenere alla terra.

Siamo nel mondo e per questo ci assumiamo le nostre responsabilità, viviamo i nostri affetti, il nostro lavoro e la nostra professione… i nostri diritti e doveri. Abitiamo il mondo nell’impegno per la città, per l’ambiente, per i poveri… con responsabilità per una politica di giustizia e di pace.

Al tempo stesso però, dice Gesù di sé stesso e di noi, Non sono del mondo, come io non sono del mondo. Cosa significa non essere del mondo come Gesù?

Papa Francesco ci ha fatto dono di una preziosa Esortazione apostolica, Gaudete et Exsultate, dove il tema è la chiamata alla santità nel mondo contemporaneo. Ad un certo punto scrive: Gesù apre una breccia che permette di distinguere due volti, quello del Padre e quello del fratello. Non ci consegna due formule o due precetti in più. Ci consegna due volti, o meglio, uno solo, quello di Dio che si riflette in molti. Perché in ogni fratello, specialmente nel più piccolo, fragile, indifeso e bisognoso, è presente l’immagine stessa di Dio. Infatti, con gli scarti di questa umanità vulnerabile, alla fine del tempo, il Signore plasmerà la sua ultima opera d’arte (n.16).

Secondo le parole di Francesco il non essere del mondo, non significa fuggire in chissà quale dimensione o alienazione, ma consiste nel vivere nel mondo senza seguire le logiche mondane dell’interesse, del profitto, dell’orgoglio, della iniquità… capaci di vedere il volto di Dio nel volto dell’altro, così come Gesù si rivolge al Padre e al tempo stesso ha a cuore i fratelli.

Sempre nell’esortazione Papa Francesco ci offre un’indicazione concreta, pratica per una vita spirituale che non si perda nei cieli dei cieli, ma che nemmeno collassi nelle viscere del mondo, quando scrive: Ricordiamo come Gesù invitava i suoi discepoli a fare attenzione ai particolari. Il piccolo particolare che si stava esaurendo il vino in una festa.

Il piccolo particolare che mancava una pecora.

Il piccolo particolare della vedova che offrì le sue due monetine.

Il piccolo particolare di avere olio di riserva per le lampade se lo sposo ritarda.

Il piccolo particolare di chiedere ai discepoli di vedere quanti pani avevano.

Il piccolo particolare di avere un fuocherello pronto e del pesce sulla griglia mentre aspettava i discepoli all’alba (n.144).

Prenderci cura dei particolari, essere attenti alle sfumature che tante volte le parole nascondono, avere attenzione a ciò che non appare… ecco il vero antidoto alla tendenza dell’individualismo consumista che finisce per isolarci nella ricerca del benessere appartato dagli altri (cf. n. 146). Ecco il vero antidoto a quella che il grande monaco e pensatore Thomas Merton, in un testo inedito (Il primato della contemplazione, EMI) presentato al Salone del libro di Torino, descrive come la bancarotta spirituale, ed era il secolo scorso!

«Quando il nostro mondo ci crolla sulla testa – come insistentemente cerca di fare di questi tempi – non abbiamo altro modo per reagire se non fare sempre più rumore, assordandoci con argomenti che hanno poco o nessun senso, finché alla fine ripieghiamo e ci ritiriamo nel silenzio di una stupida disperazione. La bancarotta spirituale dell’uomo non gli ha lasciato nessuna possibilità di rifugiarsi in sé stesso, nessuna cittadella interiore in cui potersi ritirare per raccogliere le forze e valutare la situazione morale che si trova ad affrontare, e in cui poter arrivare a decidere dove rivolgersi per chiedere aiuto».

La bancarotta spirituale è la mancanza di una vita spirituale che abbia a cuore un unico volto quello di Dio riflesso nel volto degli altri. La bancarotta spirituale è la frattura di questo sguardo, del modo in cui viviamo la vita, la quotidianità. Mi sembra coincida con la condizione di Giuda, il figlio della perdizione, il figlio del fallimento, della sconfitta.

Questa è la condizione di tanti che di fatto, sono in piena bancarotta spirituale, cioè senza una vita spirituale degna di tale nome, di una dimensione intima che pulsa da di dentro e che si nutre, appunto, delle piccole cose, delle piccole attenzioni.

E qui mi vengono in mente, a mo’ di consegna conclusiva, le parole di un’altra figura straordinaria del cristianesimo italiano, Adriana Zarri, quando scrive: A questo mondo disumano,

fatto di direttive

e di risultati tangibili,

distribuiamo sorrisi,

fiori,

baci,

gatti,

musica,

sogni,

preghiere,

gratuità.

Questo è il maggiore affronto,

la controcultura più profonda.

Forse la prima resistenza alla bancarotta spirituale del nostro paese può partire proprio da qui, da questa controcultura che lo Spirito continua a suscitare in ciascuno di noi.

(At 1, 15-26; Gv 17,11-19)