IV DI PASQUA - Gv 10, 27-30


Leggiamo la parola di Dio, ascoltiamo quello che il Signore ci vuole dire perché vogliamo la nostra vita migliore, vogliamo cambiare noi stessi e vorremmo che anche il nostro mondo cambiasse.

Quindi leggiamo e ascoltiamo testi che sono lontani da noi migliaia di anni non in maniera asettica, indifferente, avulsa dalla realtà, ma con la nostra sensibilità, con le nostre problematiche, con le nostre speranze, in questo tempo e non semplicemente per applicare una qualche norma, un impegno morale, ma anzitutto per imparare a leggere e a interpretare la realtà.

Infatti, alla luce del fatto che in queste settimane abbiamo assistito ad alcuni terribili episodi di bullismo, di violenza nelle scuole ad opera di ragazzi e ragazze, mi ha colpito come nelle prime due letture che abbiamo ascoltato, il libro degli Atti e la lettera di Paolo a Timoteo, si parli di ragazzi e di giovani che erano presenti nella vita delle prime comunità di discepoli, comunità che erano capaci appunto di affascinare le nuove generazioni al vangelo di Gesù.

Paolo ci fa conoscere il giovane Timoteo, verso il quale usa parole molto affettuose, intense, in un momento in cui la comunità ha smarrito l’entusiasmo e la solidità degli inizi e ha bisogno di compattarsi intorno al suo giovane pastore. Non conosciamo esattamente l’età di Timoteo, sappiamo che era figlio di mamma ebrea e di padre greco, educato alla fede dalla nonna Loide, pur molto giovane Paolo lo fece pastore della comunità di Efeso.

Quando nella dura prigionia romana, rimasto con il solo Luca accanto, Paolo si rese conto di essere alla fine della sua vita, mandò a chiamare il giovane Timoteo, perché sentiva il bisogno di poter contare in un momento così delicato, sulla sua amicizia e vicinanza.

Così anche nella prima lettura tratta dal libro degli Atti si parla di un ragazzo che si chiama Èutico mentre partecipa all’eucaristia la domenica sera presieduta da Paolo che dopo cinque giorni di navigazione da Filippi è arrivato a Troade, in Asia Minore, nell’attuale Turchia, sulla costa settentrionale dell’Egeo, da dove partirà l’indomani. Le cose vanno per le lunghe: a mezzanotte il giovane per un colpo di sonno cadde dalla finestra del terzo piano e morì.

Alcuni dicono: Paolo faceva prediche troppo lunghe… era noioso… sul noioso non lo so, ma certamente non era una predica, o perlomeno non era una predica come la intendiamo noi, quale monologo del prete, perché il verbo dice che “dialogavano, conversavano”!

Bellissima questa immagine: durante la celebrazione dell’eucaristia, dello spezzare il pane, si dà la possibilità di dialogare, di conversare… non c’era perlomeno la fretta di stare dentro il ristretto spazio di un’ora, e poi Paolo ascolta, non fa solo prediche. In questo contesto il giovane Èutico, che significa buona fortuna, seduto sul davanzale, preso dal sonno cade dal terzo piano e muore sul colpo.

È un’immagine che dice più di un fatto di cronaca nera: se il ragazzo stava sul davanzale è perché si comportava un poco come i nostri adolescenti, il davanzale è un posto dove, contemporaneamente, puoi “stare” nella sala e al tempo stesso puoi “startene fuori”, puoi vedere cosa accade dentro e cosa accade fuori. Sei dentro, ma al tempo stesso sei fuori. La cosa bella è che la comunità lo accolga, rispetti i suoi tempi, permetta che stia lì.

Certo che se fossimo noi adulti a stare alla finestra le cose sarebbero ben più gravi. Se ci siamo addormentati, per immaturità, pigrizia o per ambiguità, chiediamo al Signore di svegliarci, come ha fatto con il ragazzo e ci faccia tornare al nostro primo amore.

Abbiamo quindi due figure di giovani delle comunità degli inizi, molto diverse tra di loro e che ci interrogano sui ragazzi e i giovani nelle nostre comunità, nella chiesa e comunque nella società. È un tema questo molto importante oggi, se papa Francesco ha chiesto che un Sinodo lo ponga al centro del confronto e del dialogo.

Anche vicino a noi, e posso dirvi che lo sperimento ogni giorno, ci sono giovani che, come Timoteo, sono impegnati, veramente in gamba, ragazze e ragazzi validi e pieni di entusiasmo che si dedicano al bene comune… Così come ci sono giovani che come Èutico stanno alla finestra, non sanno se entrare nella vita con coraggio, se abbracciare la fede con slancio… e nel frattempo sonnecchiano rischiando di cadere e di farsi del male.

La questione riguarda anche tutti noi, ci interroga e ci deve mettere in condizione di fare la fatica del dialogo, del confronto che nelle comunità primitive ha fatto emergere figure straordinarie.

È difficile dialogare, oggi forse più di ieri, perché il dialogo pare cosa da deboli, di chi non ha personalità, di chi è insicuro… In realtà è proprio nel dialogo, nel confronto – come faceva Paolo nelle notti in Turchia – che passa la fede, passa l’educazione….

Proprio così occorre ritrovare la strada del dialogo, del confronto perché nessuno di noi possiede facili soluzioni, siamo in continuo cambiamento e forse varrebbe la pena andare a leggere o a rileggere il libro Pedagogia degli oppressi, scritto dal brasiliano Paul Freire nel 1968 mentre era in esilio in Cile. Non è solo un testo da archiviare come storia della pedagogia perché segnato da un contesto diverso dall’attuale, ma credo che potrebbe essere utile per chiunque educatore, genitore, insegnante abbia a cuore l’educazione umana e la trasmissione della fede con i giovani.

Paul Freire scrive che occorre una educazione che non sia semplicemente «pedagogia depositaria», perché quella è trasmissione di competenze ed è incapace di dialogo, se vogliamo un’educazione che sia pratica della libertà, occorre deciderci per una «pedagogia problematizzante», capace di dialogo che vive di domande, di ricerca, di interrogativi… si tratta in altre parole di umanizzazione o di disumanizzazione, a seconda se vogliamo una pedagogia per la persona o con la persona.

Rivolgendosi a un insegnante Freire scrive: «Quando stai andando a scuola interrogati su di te, e se pensi ancora di trasformare il mondo. Perché se così non fosse torna a casa: non avresti niente da dire ai tuoi ragazzi».

E poi c’è almeno un altro spunto di riflessione che viene anzitutto da quella che la comunità internazionale oggi celebra come “Giornata della terra”, la più grande manifestazione ambientale del pianeta, l’unico momento in cui tutti i cittadini del mondo si uniscono per promuovere la salvaguardia della Terra e poi dalla parola del Vangelo, da quei pochi versetti tratti dal cap. 10 di Giovanni, un capitolo dove domina la figura del Buon Pastore, anche se qui di fatto non viene mai nominato, tuttavia si capisce che è il pastore che parla.

La metafora del pastore nel mondo biblico preindustriale e nei primi secoli dell’era volgare era ascoltata da gente che aveva un rapporto più stretto con le pecore e con il mondo pastorale, rispetto a noi e alla maggior parte delle persone oggi.

Però questo non ci autorizza a dimenticare il nostro rapporto con le altre creature, con gli animali, il sole, i vegetali… Ho letto che in Australia ci sono settantuno milioni di pecore e quasi venticinque milioni di persone: il numero delle pecore è quasi tre volte quello della popolazione umana. Questo per dire che, casomai ce lo fossimo dimenticato, la comunità della Terra è più grande della comunità umana.

Celebrare la Giornata della Terra nella domenica del Buon Pastore è un’opportunità per assumere sempre più la consapevolezza che invece tanto spesso dimentichiamo di considerare l’impatto che, giorno dopo giorno, procuriamo con le nostre scelte sugli abitanti non umani del nostro pianeta.

Ricordiamo l’appello di papa Francesco nell’enciclica Laudato si’: Il sole e la luna, il cedro e il piccolo fiore, l’aquila e il passero: le innumerevoli diversità e disuguaglianze stanno a significare che nessuna creatura basta a se stessa, che esse esistono solo in dipendenza le une dalle altre, per completarsi vicendevolmente, al servizio le une delle altre (n.86).

Provate a pensare a una nostra giornata senza plastica! Come sarebbe difficile per noi, per le nostre abitudini, per la nostra organizzazione famigliare e professionale, eppure se non vogliamo rimanere o diventare cattivi pastori della terra e se non ci accontentiamo dei luoghi comuni, dobbiamo cominciare dalle nostre scelte quotidiane.

È questione di ascolto, se ci pensiamo bene, in tutte e due le situazioni che abbiamo incontrato: ascoltiamo, ascoltiamoci di più, diamo tempo alla gratuità dell’ascolto dentro le nostre comunità, verso i ragazzi e i giovani. Ascoltiamo anche la voce del Buon pastore, ascoltiamo la sua Parola, ma ascoltiamo anche il grido che sale dalla terra, perché, come dice papa Francesco, un vero ascolto del grido della terra, significa anche ascoltare il grido dei poveri, delle ingiustizie e delle violenze che tanto devastano il mondo.

Forse dobbiamo proprio cominciare da qui, dall’ascoltare come prima condizione per un vero cambiamento.

(At 20,7-12; 1Tm 4, 12-16; Gv 10, 27-30)