X DOPO PENTECOSTE - Mt 21, 12-16
Quando Gesù sale al tempio, entra in un luogo di culto che non era già più quello costruito da Salomone (nel 950 ca.) che ci è stato descritto nella prima lettura. Gesù entra nel tempio iniziato da Erode vent’anni circa prima della sua nascita e ormai pressoché completato. C’erano voluti almeno quarant’anni per una costruzione la cui sola spianata era immensa: circa 144.000 m2, cinque volte più grande dell’Acropoli di Atene, per intenderci.
Possiamo ben immaginare quanto la gente ci tenesse a salire al tempio. Nelle grandi feste la popolazione che saliva a Gerusalemme per lo meno raddoppiava: la città passava da circa cinquantamila a centoventimila persone.
Gran parte della spianata era considerata il “cortile delle genti”: un luogo dove anche un non ebreo poteva stare a pregare e che ben presto divenne un luogo dove si poteva commerciare, dove si doveva cambiare la moneta, per chi veniva dall’estero, necessaria per gli acquisti e per comprare gli animali destinati ai sacrifici.
Il servizio d’ordine era garantito sia dalla guardia erodiana che dalle centinaia di sacerdoti e funzionari che presidiavano le attività affinché tutto funzionasse a modo, ma anche dai soldati di Pilato che dalla torre Antonia controllavano ogni movimento.
Questo ci fa già pensare a un gesto non solo circoscritto che coinvolse una minima parte dei commercianti presenti sulla spianata, diversamente l’intervento dei soldati avrebbe soffocato in poco tempo ogni tentativo di rivolta per ripristinare l’ordine pubblico, ma che fosse anche in qualche modo un gesto dimostrativo, un gesto profetico che doveva far pensare, che doveva far discutere.
Infatti possiamo comprendere le parole di Gesù se osserviamo il nesso tra due gesti che egli compie uno di seguito all’altro: prima scaccia i commercianti dal tempio e subito dopo si prende cura dei ciechi e degli storpi, come viene detto al v. 14: Gli si avvicinarono nel tempio ciechi e storpi, ed egli li guarì.
La casa di Dio diventa un covo di ladri, anziché una casa di preghiera quando dimentica di prendersi cura dei poveri.
La casa di Dio non è il tempio: le nostre case sono il tempio di Dio, i nostri corpi sono dimora di Dio.
Dio abita lì, non negli spazi che noi ci ostiniamo ancora a chiamare “sacri”. Con Gesù questa distinzione tra sacro e profano non ha più senso, perché se il Totalmente Santo che è Gesù è venuto ad abitare da uomo il corpo umano, ciò che è profano per eccellenza, in lui allora non c’è più né sacro, né profano. Diventano categorie obsolete e superate dalla sua divina presenza che rende santo il peccatore, che prende per mano il lebbroso e che si lascia lavare i piedi da una prostituta.
Architettura divina: abitare l’umano.
Forse sarà anche per questo che tante chiese oggi che vorrebbero essere arte “sacra” appunto, sono evidentemente brutte perché hanno dimenticato l’umano. Conosco artisti che non si inventano un sacro astratto e alienato, ma hanno imparato a trovare il divino nella loro umanità.
Persiste nell’animo umano questo indomabile istinto a cercare sicurezza negli amuleti sacri, nei feticci – perdonate la parola – ma a questo viene ridotto il tempio, il santuario, finanche il crocifisso: oggetti volti a rassicurare le nostre paure, le nostre insicurezze, e, guarda caso, sempre contro qualcuno e per scopi d’interesse.
Quando invece, dice Gesù, è necessario stare nella relazione col Padre, entrare nel tempio della nostra coscienza, del nostro cuore, della nostra anima. E questo è il cammino da fare: verso sé stessi per incontrare il divino che ci abita. Facciamo la strada quella più difficile: entrare nelle contraddizioni della coscienza, dell’anima, della vita.
Ascoltare il sommovimento che ci abita, dare un nome ai sentimenti, alle paure, ai pregiudizi. Riconoscere il ‘mostro’ che è in noi e che ci fa paura, perché solo così non diventeremo come quel ‘mostro’ che quando vede il corpo di Cristo naufragare nel Mediterraneo si volta dall’altra parte.
E non diventeremo nemmeno come quel mostro che prima di compiere un delitto di mafia bacia l’immaginetta di un santo piuttosto che di un altro.
Ecco a cosa conduce la patologia del ‘sacro’ che separa il divino dall’umano. È questa separazione, che è poi il mestiere del diavolo, del grande divisore, che suscita la reazione di Gesù: venite al tempio chi a vendere e chi a comprare, ma non vedete i figli di Dio, non vedete coloro che Dio vede e ama: i ciechi e gli storpi.
Vi crogiolate nelle vostre cerimonie e non cercate la giustizia pensando di comprare l’Eterno con due colombe! Ma cosa vuole davvero Dio? Qual è il tempio di Dio?
Forse è proprio questo il cammino di un’intera vita e pare essere una cosa ovvia, ma in realtà è durissima. Dio può fare a meno dei tuoi sacrifici di colombe e delle tue offerte, ma non può proprio fare a meno dell’amore e della cura per chi fa più fatica, per chi rimane indietro e non ce la fa a stare al passo.
Le nostre chiese, le nostre cattedrali sono sempre a rischio di diventare un covo di ladri e di ingiustizia se dimentichiamo il modo di fare di Gesù, di pensare di Gesù, il modo di essere di Gesù nel prendersi cura dei più deboli e dei più fragili.
Giungiamo a ‘sconsacrare’ la chiesa stessa quando dimentichiamo che il vero tempio di Dio è l’uomo, per quanto piccolo e umile, quello stesso uomo su cui lui si è chinato e che noi scegliamo di non vedere.
Non solo, pensate al fatto che i ciechi e gli storpi erano i primi della lista di coloro che non potevano accedere al sacerdozio del tempio. Gesù lancia proprio una bella sfida: non si tratta solo della reazione di uno che non sopporta più la scissione tra preghiera e vita, tra relazione con Dio e relazione con gli altri, è tutto un sistema religioso che viene ribaltato e non solo quattro bancarelle.
In qualche modo era già scritto nella prima lettura e ci pare un paradosso, quando dice al v.10: “Appena i sacerdoti furono usciti dal santuario, la nube riempì il tempio del Signore e i sacerdoti non poterono rimanere nel tempio a causa della nube perché la gloria di Dio riempiva il tempio”! Ironia disarmante: quando entra l’Eterno, se ne escono i sacerdoti.
Gesù stesso entra nel tempio non come sacerdote, ma come profeta: le sue parole citano a Isaia e a Geremia: da sempre i profeti sono stati la spina nel fianco del popolo e delle istituzioni per ricordare l’architettura divina che fa dell’universo il suo tempio e che ha nel cuore dell’uomo il suo santuario.
Paolo lo ha compreso perfettamente quando arriva a dire nella seconda lettura: Noi siamo il tempio del Dio vivente (v.16). E lo dice a una comunità che non era affatto di cristiani perfetti, ha davanti a sé persone che non credo fossero poi così diverse da noi nel cammino di fede.
Non è un grido di arroganza trionfale, anzi: mentre intorno nascevano gruppi e movimenti che cercavano di distinguersi, di considerarsi migliori e più perfetti, che inseguivano maestri che insegnavano a raggiungere la perfezione morale, come gli stoici, e gli epicurei… l’esperienza della chiesa nascente era quella di un Dio che in Gesù costruisce il nucleo di una nuova umanità sui poveri, su quelle vite scartate e considerate inutili e certamente non sacre.
E cos’è la chiesa, cosa dovrebbe essere la chiesa, se non la casa di preghiera dove ci si prende cura proprio delle fragilità, delle debolezze, degli scartati?
Due cose portiamo a casa dalla parola di Dio di questo oggi: anzitutto teniamo viva l’autentica relazione col Padre, nella preghiera, nell’ascolto della Parola. In questi giorni di vacanza diamoci tempi distesi di silenzio per rientrare in noi stessi e per incontrare il divino che l’Eterno ha deposto nei nostri cuori.
Criterio di autenticità della nostra preghiera, del nostro incontro con Dio, sarà dunque la seconda cosa, ovvero se sapremo avere un cuore secondo la sua volontà, un pensiero secondo il suo modo di agire, una vita che agisce come agirebbe Gesù, che appunto si è preso cura dell’umano debole e fragile, dello scartato per renderlo santo.
(1Re 7,51-8,14; 2Cor 6,14-7,1; Mt 21, 12-16)