V DI PASQUA - Gv 13, 31b-35


(At 4, 32-37; 1Cor 12,31-13,8; Gv 13, 31-35)

È tutto un canto d’amore la parola di Dio di oggi.

È una testimonianza dell’amore fraterno la lettura degli Atti che ci racconta di come si amavano i discepoli della prima ora.

È un inno vero e proprio quello di Paolo che scrivendo ai cristiani della comunità greca di Corinto che si vantavano di avere tante cose, tanti doni, tante risorse… ricorda loro che l’agape, l’amore, la caritas è ciò che conta più di ogni altra cosa.

Da dove nasce questo amore, questa caritas, questa agape? Il vangelo ci dice che l’amore tra cristiani trova la sua ragion d’essere in un momento preciso della vita di Gesù e questo momento è l’ultima cena. Infatti abbiamo ascoltato un passo del cap.13 di Giovanni che insieme a diversi capitoli costituisce un vasto insieme letterario che riunisce l’ultima cena, la lavanda dei piedi e i discorsi di addio che culminano con il cap. 17, la grande preghiera di Gesù.

Questo è importante da sapere per noi perché il comandamento dell’amore viene donato da Gesù in un momento drammatico della sua vita. Non è lo slancio generoso scaturito da una stagione serena, da un periodo bello e tranquillo, anzi, la riga che precede il primo versetto di oggi recita così: Preso dunque il boccone, uscì subito. Ed era notte. Quando dunque fu uscito, Gesù disse: Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato…

Avete inteso che si sta parlando di Giuda. Non possiamo comprendere il comandamento dell’amore se non da questa prospettiva. Perché Gesù afferma di essere glorificato, che Dio è glorificato in lui. Giuda ha appena preso il boccone e se n’è andato e sappiamo a fare che cosa… come può dire Gesù: Il Figlio dell’uomo è stato glorificato? Se per gloria intendiamo la fama, la reputazione, il successo, perché questo significa anche il termine greco doxa (viene usato ancora oggi per indicare sondaggi e per misurare i consensi), chiaramente non siamo di fronte a un successo, il tradimento è una sconfitta.

Ma è proprio qui che l’uomo di Nazaret rivela la gloria di Dio, cioè rivela chi è Dio, il successo di Dio, perché Dio si fa responsabile anche del peccato dell’uomo e allora ama così e il Figlio ama come il Padre.

Se per noi parlare di «gloria» significa pensare al nostro successo personale, al nostro emergere sopra gli altri, senza assumerci la responsabilità per l’altro, anzi utilizzandolo come nostro piedistallo, la gloria di Dio così come ce la mostra Gesù invece è sempre connessa con la salvezza dell’uomo. E quando è che vediamo questa gloria? Adesso. In quest’ora, nel tradimento. Perché in questo gesto si vede già la morte in croce, cosa che avverrà di lì a poche ore, ma che nell’uscita di Giuda è già avvenuta.

Noi quando leggiamo di Giuda, siamo interessati a sapere che fine farà, svisceriamo il dramma interiore e su questa dimensione si fanno film, teatri, si scrivono libri… ma perdendo di vista che il messaggio non è la fine di Giuda, perché siamo tutti come lui, se ci guardiamo bene, più o meno. Il problema è un altro: se guardiamo l’amore che il Signore ha per Giuda, allora capisco chi è il Signore: è uno che ama così. E comprendo chi sono io: sono il discepolo che Gesù ama. Allora entro nel Vangelo per la porta centrale che è quella del Signore che mi ha amato e ha dato se stesso per me.

Perché? Perché se voi avete un figlio che vi dà dispiaceri, voi lo amate di più. Altrimenti non sapete amare. Nei Racconti dei Chassidìm di Martin Buber c’è questo racconto molto bello. Un giorno una persona chiede a un’altra: Tu mi ami?. L’altra risponde: Certo che ti amo. La prima chiede: Tu sai qual è la mia sofferenza? L’altro replica: No. Come faccio a sapere quale è la tua pena?. Allora conclude il primo: Allora non mi puoi amare, perché non sai qual è la mia pena.

Ecco: amare significa conoscere la pena dell’altro, la sua umiliazione, il suo disagio interiore, finché non si conosce questo, non si ama. Ecco l’amore di Gesù, è un amore che si fa responsabile per il dolore dell’altro, per il suo tradimento.

Se il Signore rifiutasse Giuda perché lui lo rifiuta, allora potrei fare anch’io il Signore in questo modo! Il Signore è il Signore perché è fedele in eterno. Dio è uno che ama perché conosce la nostra pena interiore, la nostra sofferenza, il nostro disagio. È guardando ciò che il Signore fa che tutti abbiamo speranza. Ciò che Gesù ha fatto per Giuda apre la speranza a tutta l’umanità. Se si consegna come segno di amicizia e di amore estremo anche a chi lo tradisce, anche a chi lo rinnega, anche a chi lo rifiuta, vuol dire che lui non rifiuta nessuno. Questa è la gloria di Dio, la sua essenza, l’amore senza condizioni che solo lui ha, che si rivela in Giuda.

Quando uno capisce di essere amato come Giuda, cosa capisce? Negli altri vangeli, subito il tradimento di Giuda c’è l’istituzione dell’Eucaristia e poi l’annuncio del rinnegamento di Pietro, in modo che l’eucaristia viene a trovarsi tra il tradimento e il rinnegamento. Il che vuol dire una cosa molto semplice: il grande dono di Dio – l’Eucaristia è Dio stesso che dona la sua vita – è incastonato tra il tradimento e il rinnegamento. Come a dire: le nostre mani per accogliere questo dono sono il tradire e il rinnegare. Per questo prima di accedere alla comunione diciamo: Signore non sono degno… Perché se io meritassi quel dono, andrei a prendere il salario dei miei meriti e non il dono dell’amore di Dio. Andrei a prendere il mio stipendio e non il Signore e il suo amore per me.

Giovanni invece di mettere il racconto della Cena, racconta il comando dell’amore. Perché appunto l’Eucaristia non è semplicemente un rito, ma l’eucaristia è amare come lui ci ama. E come ci ama? Ci ama lavando i piedi a Pietro che rinnega e dando se stesso a Giuda che tradisce. Come a dire che il cuore del cristiano non è sull’altare, ma nel mondo, per via, nelle relazioni.

Questo significa celebrare l’Eucaristia e questa è la sintesi di tutto il vangelo, dove c’è Gesù che ci ha amati e non quando eravamo bravi, ma quando eravamo peccatori. Proprio così ha rivelato il suo amore gratuito per me. Mi ha amato quando l’ho tradito, mi ha amato quando l’ho rinnegato. Mi ha amato e mi ama quando gli sono infedele.

Quando faccio questa esperienza allora sono capace di amare gli altri. In questo senso la parola di Gesù è un comando «nuovo», un dono nuovo. Non perché sia nuovo il contenuto: da una vita sappiamo che è importante amare e lo sapevano generazioni e generazioni prima di Gesù e prima di noi. È nuovo perché semplicemente abbiamo un cuore nuovo che può amare, e il cuore è nuovo perché sperimentiamo come lui ci ama. L’amore di Gesù per noi è la sorgente del nostro amore tra di noi così che possiamo amarci anche noi gli uni gli altri, perché ci sentiamo responsabili per gli altri.

Scrive Lévinas: Il legame con altri si stringe soltanto come responsabilità, sia che essa venga accettata o rifiutata… Dire «eccomi», fare qualcosa per un altro, donare: essere spirito umano significa questo.

Ed è il distintivo del discepolo, come dice Gesù: Se avrete amore gli uni per gli altri. Come facciamo ad amarci gli uni gli altri? Diventa impossibile e insostenibile se guardiamo a noi stessi. Ma io so di essere amato da Dio, prescindendo dai miei meriti o demeriti, perché Gesù ce lo ha rivelato con un amore responsabile sia per Pietro che per Giuda. Così gli altri sono per me fratelli, non posso non amarli, sono i fratelli che mi ha dato e di cui sono responsabile, perché l’umanità possa avere futuro.