VII DEL TEMPO ORDINARIO - Mt 5, 38-48


(Lv 19, 1-2.17-18; Mt 5, 38-48)

Che pretese, Signore! Essere perfetti; anzi, essere perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste! Ma qual è la perfezione che esigi da noi? È forse quella dell’impeccabilità? Della mancanza assoluta di sbavature? Siamo forse chiamati a rassomigliare a quelle statue greche che ornavano i templi e le piazze di Atene: bellissime, perfette nelle loro armonie …  ma la perfezione delle statue è la perfezione della morte.

Non sappiamo se Gesù abbia avuto occasione di gettare il suo sguardo su quelle opere d’arte, ma certo è che quando parla di perfezione non pensa esattamente ciò cui pensiamo noi. La perfezione non è l’armonia delle forme e delle misure, quella greca per intenderci, piuttosto per Gesù – e i suoi ascoltatori lo sapevano bene – non esiste la perfezione in astratto, perché solo uno è perfetto: il Padre celeste. Di quale perfezione parla il Signore? Ci può bastare rileggere il v. 45 Egli fa sorgere il sole sui cattivi e sui buoni e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti.

Dunque la perfezione di cui parla Gesù è quella dell’amore che fa sorgere il sole sui cattivi e sui buoni, è la perfezione di una misericordia capace di abbracciare la bontà e la cattiveria di cui ciascuno di noi è capace. È la perfezione di una giustizia che fa piovere sui giusti e sugli ingiusti, cioè che benedice la vita di ciascuno, andando oltre quel criterio che ci governa quotidianamente nelle nostre azioni, ovvero quello della reciprocità.

In altre parole è questa la santità di Dio. Come diceva l’Eterno a Mosé nel Levitico: siate santi, perché io sono santo. Ecco la perfezione, essere santi, perché Dio è il tre volte santo, è santo della santità dell’amore. Ma Gesù non si accontenta di una affermazione che per quanto importante potrebbe risultare scontata e anche generica e, completando quanto aveva iniziato domenica scorsa, porta altri due esempi di come la Legge sia necessaria ma insufficiente per vivere questa perfezione, questa santità.

Infatti la cosiddetta legge del taglione “occhio per occhio”, ha avuto il pregio, a fronte di ritorsioni e reazioni esagerate, di contenere la misura della vendetta nei limiti del danno subito, era dunque una legge restrittiva più che permissiva: a chi ti ha strappato un occhio non ne strapperai due, ma uno solo!

Gesù introduce un termine di confronto che non è più semplicemente il criterio di reciprocità: tu mi hai fatto questo, io ti ripago con la stessa moneta, niente di più, ma niente di meno!

Per questa strada l’umanità non progredisce e la storia ripropone sia pure con colori e sfumature diverse lo stesso film di guerre e di violenze, di vincitori e di vittime …

Gesù introduce un termine di riferimento altro che è nientemeno il modo di fare del Padre. Di fronte a uno che ti offende, che ti ferisce … chiediti: cosa fa Dio con te? Chi è questo fratello per te davanti all’Eterno?

Se rimani sul piano della giustizia distributiva e del comandamento, uno che ti offende lo ripagherai con la stessa moneta. Ma se vuoi costruire una nuova civiltà, una nuova umanità, se vuoi davvero consegnare un futuro ai tuoi figli, allora entra nella familiarità del modo di fare del Padre celeste, va’ oltre la norma e guarda l’altro così come lo vede l’Eterno.

Utopia? Misticismo intimistico? Credo che la proposta evangelica in realtà sia una proposta altamente politica, nel senso più vero del bene della polis, intesa come convivenza civile, come cittadinanza solidale. Infatti Gesù dice: “Sradicate dal cuore il vostro odio e non ci saranno più guerre, imparate a guardare l’altro come figlio amato da Dio e regnerà la pace, perché se cambi il cuore viene il regno di Dio”.

Ci rendiamo conto dunque che l’amore così come il Signore lo esige da noi, è una questione di responsabilità, non sono semplicemente in gioco la bontà o le pie intenzioni … il cambiamento del cuore è una questione di responsabilità e quindi altamente politica.

Ma il Signore riconosce che dobbiamo fare i conti con quella che la Scrittura chiama la sklerocardia, che è la durezza di cuore. Il nostro cuore si indurisce sotto l’amarezza delle esperienze quotidiane, nel pregiudizio, nella incapacità di pensare diversamente …   Non solo, ma nei tempi che viviamo ci troviamo a constatare che fare il male paga, che nuocere all’altro accresce in potere, in fama e in ricchezza, o che addirittura, agendo male, si perviene al successo, allora la durezza di cuore rendi gli uomini indifferenti gli uni agli altri, ma così anche incapaci di futuro e di speranza.

Solo se cambi il cuore, dice Gesù, verrà il regno di Dio, cioè avrai futuro. Come è possibile cambiare il cuore? Cosa dobbiamo fare? Un atto di buona volontà? Si probabilmente anche questo, ma non era necessario venisse Gesù se era questa la sola strada percorribile. In realtà il Discorso della montagna ci svela che la via del cambiamento del cuore è quella intrapresa dal servo sofferente che sale sulla croce e che sulla croce prega per i suoi nemici e così Gesù vittima sacrificata, rifiuta di essere colpevole, rivendica l’innocenza, mostra lo scandalo della violenza, ma non restituisce il male con il male.

Sta qui il grande rovesciamento: rispondere al male con il male equivale a rimettere in circolo il male, a riprodurre le condizioni perché un nuovo capro espiatorio sia messo a morte, mentre l’amore cui ci rimanda Gesù e che trova la sua cifra ermeneutica sulla croce è un atto di responsabilità. L’amore non si riduce a una questione sentimentale. Amare è un atto di responsabilità.

In genere quando si parla di responsabilità la si ascrive al vocabolario dell’imputazione: ognuno è responsabile delle proprie azioni e di queste deve rispondere. Ma la logica evangelica ci dice che noi siamo responsabili non solo di quello che facciamo, ma anche di quello che non facciamo. Il male che circola nella società nasce spesso dall’equivoco che non ho fatto niente di male, perché non si ha alcuna responsabilità. Ed è qui la responsabilità maggiore: gli uomini si danneggiano non tanto perché non si fanno del male, ma perché si disinteressano gli uni degli altri ed è un atteggiamento che lascia spazio a coloro che il male lo perpetrano davvero.

Ma l’altro è insieme a me, davanti a me, cammina con me: lo posso odiare, lo posso perfino ignorare, ma nel momento in cui me ne sento responsabile, me ne prendo cura con le sue ferite, lo accolgo con tutti i suoi errori, lo riconosco come figlio amato, in una parola, lo amo come lo ama l’Eterno.

Questo amore nella sua espressione evangelica prende la forma storica della responsabilità.