II DI PASQUA - In albis depositis - Gv 20, 19-31


Come abbiamo sentito dal vangelo (Gv 20, 19-31), deve essere stato più semplice per Gesù ribaltare la pietra e uscire dal sepolcro che non entrare nella casa in cui erano rinchiusi i suoi amici.

Le porte erano chiuse, dice Giovanni, ma soprattutto chiuse erano le menti, chiusi i cuori e i motivi li conosciamo bene: avevano paura dei giudei che potevano far loro del male, ma erano anche oppressi dai sensi di colpa per aver abbandonato Gesù, o forse anche perché rimproveravano a se stessi di aver creduto in lui e di aver perso tempo dietro uno che poi era finito in croce…

Sta di fatto che le porte della casa, le porte delle menti e dei cuori sono chiuse per paura: la paura è come una gabbia invisibile in cui tutti siamo più o meno consapevolmente rinchiusi, ciascuno di noi con le sue proprie paure, perché ognuno di noi ha una storia, abbiamo alle spalle esperienze che ci hanno fatto sperimentare errori, sbagli, fallimenti e anche solo l’idea di ritrovarcisi dentro accresce appunto la paura.

Infatti molte delle cose che facciamo sono mosse dalla paura. C’è una paura sana che ci fa avvertire un pericolo, ci fa stare all’erta, vigilanti, ma più spesso viviamo una paura che appunto ci rinchiude in noi stessi, ci impedisce di vivere, ci paralizza. Sarà la paura del giudizio degli altri, la paura di non essere all’altezza, la paura di… ognuno di noi potrebbe fermarsi un poco in questa settimana e mettere davanti al Signore le proprie paure, paure che magari riguardano il futuro nostro, dei nostri figli, delle persone che amiamo…  ma c’è una paura che ci accomuna oggi nelle nostre città alimentata dalla violenza, dal terrorismo, dalla follia… ed è la paura della convivenza civile.

La terribile strage nel tribunale di Milano è emblematica perché non è «solo» una questione di uno squilibrato che diventa killer o dei dispositivi di sicurezza inadeguati, ma il fatto che proprio nel tribunale, cioè laddove per definizione si misura la capacità di una comunità di ricomporre i conflitti sociali e individuali, se proprio lì esplode l’odio e la vendetta, allora vuol dire che la convivenza civile si è fatta drammatica, che la comunità è avvelenata, è incapace di riconciliazione, è dominata dall’odio e dal rancore. Ecco la paura nasce anche dal constatare la scarsa qualità civile della nostra convivenza.

Cosa facciamo? Alimentiamo le contrapposizioni e quindi le paure? Cosa pensiamo? Ci rinchiudiamo anche noi nei nostri cenacoli avvolti dal calore confortante di chi la pensa come noi?

«Venne Gesù e stette in mezzo a loro», dicono i vangeli. Per fortuna il Signore ci vuole bene e ancora irrompe dentro i nostri cenacoli, dentro le nostre gabbie di paura.

La prima cosa che possiamo fare di fronte alle nostre paure è smettere di guardare alle nostre forze, ai nostri muscoli, e di sollevare lo sguardo verso Gesù risorto, il Vivente, perché lui c’è nella nostra vita. Lo scopo della risurrezione di Cristo è che anche noi partecipiamo alla sua vita nuova. Guardiamo Gesù e non guardiamo a noi stessi, perché se guardiamo noi stessi non siamo capaci di strade nuove di convivenza civile.

Guardiamo Gesù che si presenta a noi con le ferite che rimangono sorprendentemente nel suo corpo risorto e che sono la cattedra autorevole che segnano la strada anche per noi. Guardare Gesù, vuol dire stare con lui. Nel libro degli Atti gli apostoli Pietro e Giovanni sono conosciuti come quelli che erano stati con Gesù (At 4, 8-24), proprio loro che non sempre avevano avuto il coraggio e la forza di farlo. Nelle nostre paure impariamo a stare con Lui, cosa che non fa nemmeno Tommaso, uno dei dodici.

Tommaso è uno di quelli che nella paura cerca la sua strada, opta per una soluzione solitaria, per questo c’era nel Cenacolo la domenica di pasqua, non era rimasto con gli altri, se n’era andato come a cercare di compensare la sua paura con soluzioni sue. Tommaso ci ricorda che la fede non è che si possa vivere in una splendida solitudine, abbiamo bisogno di una «ecclesia».

Il Signore lo incontri dentro una fraternità di persone, certo l’inizio è sempre personale, all’inizio la fede è una decisione del tutto intima, poi per crescere ha bisogno di una comunità. Come è stato per Saulo di Tarso: ha incontrato il Signore sulla via di Damasco, ma poi ha avuto poi bisogno che Anania e la sua comunità lo introducessero alla fede.

Infatti Tommaso la settimana successiva ritorna sui suoi passi. Si rende conto che la paura non la vince da solo, e anche quando pronuncia quella stupenda professione di fede: Mio signore e mio Dio! parla ancora al singolare ma lo fa dentro la comunità dei discepoli, perché è dentro lì che incontra il Cristo. Una fede senza relazione fraterna perde la sua forza.

Per questo è importante essere insieme nella memoria viva di Gesù ogni sette giorni, ritrovarci il primo giorno della settimana e portare qui le nostre paure, le nostre insicurezze per incontrare il Signore risorto.

Ma, ecco il terzo elemento, cosa ci dona il Risorto per vincere le paure? Potremmo dire: di che cosa ha bisogno la nostra società oggi per vincere la paura che attraversa i cuori? Qual è la missione della Chiesa oggi?

Gesù compie un gesto emblematico sui discepoli: soffiò su di loro! Il soffio dello Spirito è un atto di creazione. È cominciare da capo! Che cosa significa cominciare da capo? La nuova creazione comincia dal fatto che Dio sta facendo una cosa veramente nuova che è la vita dopo la morte, e per i discepoli le parole di Gesù dicono che lui ha perdonato la loro vigliaccheria, le loro paure, i loro rinnegamenti… e il perdono dopo il peccato è cominciare la vita dopo la morte.

Ogni peccato ha in sé un’intima matrice di paura e noi così produciamo la nostra bruttezza. Ma c’è una forza più grande che è capace di vita ed è il perdono ed è questa la missione in cui Gesù ci coinvolge: siccome il Padre ha mandato me, io mando voi. La sua missione di Messia, è la nostra stessa missione. Ogni cristiano ha la stessa missione di Cristo!

C’è una bella notizia dunque che il dono dello Spirito santo è il dono del perdono: è un gioco di parole, ma lo Spirito è il dono della liberazione dalla nostra povertà che solo Dio può fare! Solo Dio ci guarisce dal nostro cattivo uso della libertà. Ricevere il dono dello Spirito non significa fare chissà che cosa, compiere chissà quali gesti… ma perdonare!

È la cosa più urgente, la prima necessità della missione è il perdono, la cosa più seria… conoscere il perdono di Dio è la cosa più importante che la gente possa incontrare, molto più di mille libri, di mille campagne, di migliaia di iniziative.

Anche se Gesù non dice il modo in cui esercitare questo perdono. La nostra tradizione cattolica come quella ortodossa lo riconduce alla facoltà di assolvere o meno dai peccati propria dei ministri del sacramento della riconciliazione, e questo è un significato che ha una sua importanza, ma che non esaurisce la pregnanza della parola del vangelo di Giovanni dove si parla di un perdono che è esercitato da tutti i discepoli e non solo dagli apostoli.

Al v.23 Gesù dice: A coloro cui perdonerete i peccati saranno perdonati, a coloro a cui non perdonerete non saranno perdonati. Qui Ciò che in italiano è reso con non perdonerete, in greco il verbo krateo (da kratos= forza) con l’accusativo indica «afferrare con forza», «tenere fermo» qualcuno o qualcosa. Ad esempio Erode afferra Giovanni Battista, nel senso che lo arresta (Mc 6,17); il servo della parabola prende per il collo con forza l’altro servo che gli deve dei soldi (Mt 18,28); i capi del popolo cercano di arrestare Gesù (Mt 21, 46; 26,4)… quando è sulla bocca degli altri il verbo significa arrestare, prendere con forza… ed è una costante nei racconti della passione, quindi il verbo significa «arrestare, prendere con forza» ma per condannare, per uccidere.

Quando invece il verbo descrive l’agire di Gesù si intende «prendere con forza» per la vita: Gesù prende con forza la mano della fanciulla e la rialza dal letto (Mt 9,25; Lc 8,54); così il pastore prende con forza la pecora caduta nel fosso (Mt 12, 11)… Traducendo afferrate i peccati, potremmo intendere l’espressione di Giovanni come l’invito ad afferrare il peccato per fermarlo, per impedire che dilaghi.

Il dono dello Spirito santo rende capaci i discepoli di perdonarsi, ma anche di esercitare il potere sul peccato stesso, per fermarlo, per resistere al male.

C’è un peccato, ed è quello che siamo capaci di fare tra di noi e che possiamo e dobbiamo perdonarci, ma c’è un male, ci sono dei peccati che non dipendono da noi e contro i quali non possiamo che offrire una qualche forma di resistenza, peccati che non possiamo vincere ma che possiamo arrestare, fermare. Come?

Possiamo fermare la paura che domina la nostra società con la misericordia, quella misericordia per la quale papa Francesco ha deciso di indire un Giubileo straordinario. Nessuno, dice papa Francesco, può essere escluso dalla misericordia di Dio, «tutti conoscono la strada per accedervi e la Chiesa è la casa che tutti accoglie e nessuno rifiuta. Le sue porte permangono spalancate perché quanti sono toccati dalla grazia possano trovare la certezza del perdono».

Preghiamo perché a fronte delle porte chiuse dietro le quali la paure costringe le persone, a noi sia dato di essere chiesa dalle porte spalancate alla misericordia e al perdono che vengono da Dio, il solo che ci guarisce dal nostro cattivo uso della libertà.