DOMENICA DI CRISTO RE - Ultima domenica dell’anno liturgico - Mt 25, 31-46
(Dn 7, 9-10.13-14; Mt 25, 31-46)
Concludiamo oggi l’anno liturgico con la festa di Cristo re, certo è per noi un modo un po’ forse anacronistico per celebrare il Signore, ma dobbiamo ricordare che questa festa venne istituita da Pio XI al tempo del fascismo (1925) quasi a rimarcare la distanza della fede dai totalitarismi (e non senza nostalgia del potere temporale), sia di coloro che avrebbero voluto fare a meno di Dio, sia di coloro che da sempre sono tentati di «servirsi» di Dio, di piegare il Signore ai propri fini.
Noi più semplicemente viviamo questa celebrazione come conclusione dell’anno liturgico, una conclusione che però rimette in circolo il cammino della nostra vita spirituale per farlo ripartire dall’essenziale, da ciò per cui, stando alle parole di Gesù, saremo riconosciuti da lui o benedetti o maledetti.
Quindi oggi ricordiamo l’orizzonte verso il quale andiamo: ovvero verso il faccia a faccia con Cristo, ma sapendo al tempo stesso che egli ci reimmette nella vita di ogni giorno perché lui è già qui, Gesù continua a vestire i panni del povero, del forestiero, della donna e dell’uomo che soffrono. Al punto che più che la festa di Cristo re, è quella del figlio dell’Uomo, infatti Gesù parla di sé in questi termini, come di figlio dell’uomo.
Un’espressione singolare che siamo abituati a sentire, anche se non sempre ci è chiara nei suoi significati. Ne parla già il libro di Daniele, di cui abbiamo ascoltato una parte importante del cap.7. Daniele è un libro composito, ma a noi basti ricordare che queste visioni che Daniele ha sul futuro, visioni simboliche e descrittive… rimandano a un contesto storico preciso: siamo 170 anni circa prima di Gesù, quando l’ultimo re seleucide, Antioco IV, ha condotto una campagna militare contro Gerusalemme, l’ennesima per cui davvero sembra che per questa città e la sua gente non ci sia mai pace!
Possiamo immaginare oltre alle difficoltà e sofferenze causate da un assedio, anche i dubbi e le perplessità che questo suscita per la fede. Daniele intende proprio sostenere la fede e la speranza dei perseguitati, annunciando che il tempo della prova avrà una durata limitata, conoscerà la fine e allora il persecutore sarà spazzato via. Arriverà un regno guidato da «uno simile a un figlio d’uomo» che porterà a termine il disegno di salvezza. Questo figlio dell’uomo però cavalca le nubi del cielo… che è un modo per dire il suo carattere divino, trascendente.
Già nei pochi versetti che abbiamo ascoltato avrete notate come il figlio dell’uomo che pure è divino viene presentato al Vegliardo che è seduto in trono, e noi, giustamente, pensiamo subito a Dio, il quale investe il giovane della propria autorità sulla terra. Quindi siamo di fronte a un nucleo teologico importante perché, sebbene sia diverso dal nostro modo di pensare al Messia-Cristo, però è già conosciuta l’idea di un re divino che governa la terra e questa ci aiuta moltissimo a comprendere lo sviluppo della nozione di Messia-Cristo nel giudaismo successivo (Boyarin, 2012).
Non appare una forzatura trovare qui un nucleo teologico che si svilupperà poi con l’identificare nel figlio dell’uomo il Figlio di Dio, così che potremmo dire che nei Vangeli le idee su Dio che identifichiamo come cristiane, non sono delle innovazioni estemporanee, ma potrebbero benissimo essere profondamente collegate ad alcune antiche idee israelitiche su Dio. In fondo se degli ebrei hanno creduto in Gesù figlio di Dio è perché questa attesa era in qualche modo viva e presente.
A parte queste questioni più teologiche, è importante per noi cogliere il fatto di come Daniele, di fronte alla sofferenza della sua gente, dia voce alla promessa di Dio che è sempre stato fedele e per questo ancora una volta annuncia come il tempo della prova sia un tempo breve perché un figlio dell’uomo riprenderà in mano le sorti del mondo. Ora questo figlio dell’uomo che è Gesù e che noi riconosciamo come figlio di Dio, ci dice che la promessa di Dio si completerà alla fine della storia, quando appunto il figlio dell’uomo cavalcherà ancora le nubi, ma è anche vero che questa promessa avviene già qui, nella vita di ogni giorno, nella fedeltà al povero, al forestiero, al malato, all’affamato… e che quanto accade qui non è affatto estraneo a ciò che avverrà allora.
L’umanità aspetta un Salvatore che arriva dal cielo, mandato da Dio, ma questo Salvatore per un verso ci dice che un giorno ci sarà il giudizio di Dio e al tempo stesso ci fa tornare a guardare alla terra con amore perché lui è già qui. Così che quando il giorno in cui finalmente varcheremo quella soglia e i suoi occhi saranno nel nostro sguardo, al vederlo saremo sgomenti e spero proprio che potremo dire: «Ah, ma sei tu?!». Sei tu quel volto che ogni giorno incrociavo per la strada… eri tu quel giovane, l’anziano, uomo, donna o bambino, eri quel volto incontrato mille volte… Il giudizio sarà un riconoscimento: «Ah, ma sei tu?!».
Niente visioni, apparizioni, nemmeno quelle teofanie che si immaginava Daniele e alle quali ci aveva abituati Mosè. Non c’è né fuoco, né terremoto, né folgori, né trombe… solo il volto, solo una mano, una voce che chiede, che invoca, che esige silenzio per essere ascoltata. Ed è quello che Gesù ha sempre fatto: alla gente che aveva fame, ha dato il pane; alla donna di Samaria che aveva sete, ha dato l’acqua. È lui che ha accolto il grido dello straniero centurione. È lui che si è preso cura del cieco, del lebbroso…
E noi che non siamo cattivi, ma abbiamo sempre altro cui pensare, avbbiamo da obiettare: prima devo pensare a me, ai miei, perché a noi sembra di vivere un tempo più difficile di sempre. Ma se anche solo pensassimo a quanto accadeva al tempo di Gesù, a come l’insicurezza politica e militare rendeva tutto precario; a come le tasse incombevano sulla povera gente, specie sugli artigiani, i contadini, i commercianti… e forse c’erano ragioni ancora più gravi per dire che non c’era tempo di prendersi cura dell’altro.
E Gesù a ricordarci che i poveri, i malati, gli stranieri sono i maestri privilegiati per conoscere Dio. La loro fragilità, la loro semplicità smascherano i nostri egoismi, le nostre false sicurezze, le nostre pretese di autosufficienza e ci guidano all’esperienza della vicinanza e della tenerezza di Dio, a ricevere nella nostra vita il suo amore, la sua misericordia di Padre che, con discrezione e paziente fiducia, si prende cura di noi, di tutti noi.
Ma non è forse proprio questo ad aprire una finestra sul futuro? Ce lo ricordava sabato scorso padre Kizito nella preghiera per i morti di Lampedusa: il povero, lo straniero sono i profeti della fraternità che deve venire! Praticando l’ascolto dell’altro, l’accoglienza del povero e la fraternità con chi soffre apriamo una finestra sul futuro. Una finestra per loro anzitutto, perché possano ritrovare nella relazione umana un po’ di fiducia e di speranza. Ma anche una finestra per tutti noi che tendiamo a rinchiuderci nelle nostre false sicurezze e perciò stesso diventiamo scettici, duri, ostili, incapaci di sperare, incapaci di futuro.
Papa Francesco nella visita al Centro Astalli a Roma (10 settembre 2013) ha raccolto, come spesso fa, intorno a tre verbi la sintesi dell’impegno d’amore di un discepolo. Questi tre verbi li abbiamo condivisi con i nostri volontari della Caritas perché possano essere la guida del loro agire. Ma mi auguro che possano diventarlo per tutti noi. E i tre verbi sono: servire, accompagnare, difendere.
«Servire, diceva papa Francesco, significa accogliere la persona che arriva, con attenzione; significa chinarsi su chi ha bisogno e tendergli la mano, senza calcoli, senza timore, con tenerezza e comprensione, come Gesù si è chinato a lavare i piedi agli Apostoli. Servire significa lavorare a fianco dei più bisognosi, stabilire con loro prima di tutto relazioni umane, di vicinanza, legami di solidarietà».
E poi la seconda parola: accompagnare. Continua papa Francesco: «La sola accoglienza non basta. Non basta dare un panino se non è accompagnato dalla possibilità di imparare a camminare con le proprie gambe. La carità che lascia il povero così com’è non è sufficiente. La misericordia vera, quella che Dio ci dona e ci insegna, chiede la giustizia, chiede che il povero trovi la strada per non essere più tale. Chiede – e lo chiede a noi Chiesa, alle istituzioni – che nessuno debba più avere bisogno di una mensa, di un alloggio di fortuna, di un servizio di assistenza legale per vedere riconosciuto il proprio diritto a vivere e a lavorare, a essere pienamente persona».
Infine, il terzo verbo: difendere. «Quante volte leviamo la voce per difendere i nostri diritti, ma quante volte siamo indifferenti verso i diritti degli altri! Quante volte non sappiamo o non vogliamo dare voce alla voce di chi ha sofferto e soffre, di chi ha visto calpestare i propri diritti, di chi ha vissuto tanta violenza che ha soffocato anche il desiderio di avere giustizia!».
Preghiamo insieme il Signore oggi, affinché possiamo quel giorno essere in grado di riconoscerlo perché già qui abbiamo servito, accompagnato e difeso il povero, il forestiero, il malato… così che potremo dire a Gesù: «Ah, ma sei tu?!».