XXVII DEL TEMPO ORDINARIO - Gv 15, 9-17
(Sap. 7, 7-10. 15-16; 1Gv 4, 7-16; Gv 15, 9-17)
Celebriamo oggi la festa di s. Agostino, sebbene il calendario lo ricordi il 28 agosto, perché la comunità che lo riconosce come suo patrono, durante l’estate non ha avuto modo di festeggiarlo con la dovuta attenzione e la necessaria importanza.
Ci domandiamo che significhi per noi oggi celebrare il ricordo di una figura vissuta quasi 1600 anni or sono? Ha ancora qualcosa da dire oggi questo grande uomo appassionato e di intelligenza altissima? Ha ancora qualcosa da dire anche alla Chiesa che vive in un contesto così diverso da quello del IV-V secolo?
Dobbiamo riconoscere che Agostino sicuramente è conosciuto, almeno di fama, anche da chi magari è lontano dalla fede perché egli ha lasciato un’impronta profondissima nella vita culturale dell’Occidente e di tutto il mondo.
Ma questo ancora non ci aiuta a rispondere al senso che ha per ciascuno di noi e per questa comunità, celebrare il ricordo del più grande padre della Chiesa latina. La parola di Dio che abbiamo ascoltato ci aiuta a rileggere l’esperienza di Agostino secondo una triplice prospettiva e a ripercorrere la sua stessa vita secondo tre tempi, tre stagioni, che sono anche altrettanti passaggi.
La lettura del libro della Sapienza ci riporta alla prima parte della vita di Agostino, di questo periodo conosciamo l’itinerario tormentato e sofferto, come ci racconta la straordinaria autobiografia spirituale che è la sua opera più famosa, Le Confessioni. Quale fu l’aspetto essenziale di questo cammino? Agostino era figlio del suo tempo, condizionato profondamente dalle abitudini e dalle passioni in esso dominanti, come anche da tutte le domande e i problemi di un giovane. Viveva come tutti gli altri e tuttavia era inquieto: non si accontentò mai della vita così come essa si presentava e come tutti la vivevano. Era sempre tormentato dalla questione della verità. Voleva trovare la verità. Voleva riuscire a sapere che cosa è l’uomo; da dove proviene il mondo; di dove veniamo noi stessi, dove andiamo e come possiamo trovare la vita vera.
Aveva sentito parlare di Dio, anzi, come riconosce egli stesso, lo aveva bevuto col latte materno (cfr Conf . 3, 4, 8) e in qualche modo credeva – a volte piuttosto vagamente, a volte più chiaramente – che Dio esistesse e che si prendesse cura di noi. Con la filosofia platonica, aveva appreso e riconosciuto che “in principio era il Verbo” – il Logos, la ragione creatrice, ma la filosofia, che gli mostrava che il principio di tutto è la ragione creatrice, questa stessa filosofia non gli indicava alcuna via per raggiungerlo; questo Logos rimaneva lontano e intangibile.
L’ esperienza dell’incontro con Cristo viene raccontata da Agostino in una delle pagine più famose delle Confessioni. Egli racconta che, nel tormento delle sue riflessioni, ritiratosi in un giardino, udì all’improvviso una voce infantile che ripeteva una cantilena, mai udita prima: tolle, lege, tolle, lege, «prendi, leggi, prendi, leggi» (VIII,12,29). Si ricordò allora della conversione di Antonio, padre del monachesimo, e con premura tornò al codice paolino che aveva poco prima tra le mani, lo aprì e lo sguardo gli cadde sul passo della Lettera ai Romani, dove l’Apostolo esorta ad abbandonare le opere della carne e a rivestirsi di Cristo (13,13-14). Aveva capito che quella parola in quel momento era rivolta personalmente a lui, veniva da Dio tramite l’Apostolo e gli indicava cosa fare in quel momento. Così sentì dileguarsi le tenebre del dubbio e si ritrovò finalmente libero di donarsi interamente a Cristo: «Avevi convertito a te il mio essere» (VIII, 12,30).
Leggendo Le Confessioni si comprende la lunga lotta interiore che Agostino dovette percorrere in quegli anni per giungere a ricevere finalmente, nella notte di Pasqua del 387, dalle mani dello stesso Ambrogio il battesimo che segnò la grande svolta della sua vita. Infatti mentre si trovava a Milano in qualità di professore di retorica prese l’abitudine di ascoltare le omelie del vescovo Ambrogio che lo introdussero all’apprezzamento della bellezza dell’Antico Testamento, inteso come un cammino verso Cristo, vera sapienza attraverso il quale incontrò la «bellezza antica e sempre nuova» (Conf. X, 27) in cui soltanto trova pace il cuore dell’uomo, bellezza alla quale è rivolta una delle preghiere più belle e più famose delle Confessioni: «Tardi ti ho amato, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amato! Ed ecco tu eri dentro e io fuori, e lì ti cercavo, e nelle bellezze che hai creato, deforme, mi gettavo. Eri con me, ma io non ero con te. Da te mi tenevano lontano quelle cose che, se non fossero in te, non esisterebbero. Hai chiamato e hai gridato e hai rotto la mia sordità, hai brillato, hai mostrato il tuo splendore e hai dissipato la mia cecità, hai sparso il tuo profumo e ho respirato e aspiro a te, ho gustato e ho fame e sete, mi hai toccato e mi sono infiammato nella tua pace» (Conf. X, 27,38). Agostino fece l’esperienza narrata da Giovanni nella sua prima lettera: «In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati». Qui è il cuore del Vangelo, il nucleo centrale del cristianesimo, qui è il culmine del cammino di Agostino.
Il culmine appunto, perché c’è ancora una terza tappa della sua intensa vita. Dopo il Battesimo, Agostino si decise a ritornare in Africa e lì fondò, insieme con i suoi amici, un piccolo monastero. Voleva dedicarsi totalmente alla riflessione e contemplazione della Parola di Dio.
Ma nel 391, quattro anni dopo il battesimo, mentre partecipava a Ippona a una liturgia nella cattedrale, il Vescovo della città, un uomo di provenienza greca, che non parlava bene il latino e faceva fatica a predicare, nella sua omelia non a caso disse di aver l’intenzione di scegliere un prete al quale affidare anche il compito della predicazione. Immediatamente la gente portò a forza Agostino davanti al vescovo perché venisse consacrato presbitero a servizio della città. Subito dopo questa sua ordinazione forzata, Agostino scrisse al vescovo Valerio: «Mi sentivo come uno che non sa tenere il remo e a cui, tuttavia, è stato assegnato il secondo posto al timone… E di qui derivavano quelle lacrime che alcuni fratelli mi videro versare in città al tempo della mia ordinazione» (cfr Ep 21, 1s).
Il bel sogno della vita contemplativa era svanito, la vita di Agostino ne risultava cambiata. Diventato poi vescovo di Ippona (tra il maggio del 395 e l’agosto del 397), il suo sogno di tranquillità tramontò definitivamente, come scrisse egli stesso: «Continuamente predicare, discutere, riprendere, edificare, essere a disposizione di tutti è un ingente carico, un grande peso, un’immane fatica» (Serm 339, 4).
Oltre all’impegno per la difesa dell’ortodossia che lo portava spesso a Cartagine per i vari concili, si è calcolato che Agostino abbia predicato all’incirca ottomila volte nei suoi 39 anni di attività pastorale, ossia più di 200 volte all’anno, principalmente ad Ippona, ma anche spesso a Cartagine e, occasionalmente, altrove.
Il suo primo ciclo di omelie riguardò il Discorso della montagna; vi spiegava la via indicata da Cristo – la presentava come un pellegrinaggio sul monte santo della Parola di Dio. In queste omelie si può percepire ancora tutto l’entusiasmo della fede, la ferma convinzione che il battezzato, vivendo totalmente secondo il messaggio di Cristo, può essere, appunto, “perfetto” secondo il Sermone della montagna.
Quando circa vent’anni dopo, Agostino riprese in mano le opere redatte fino a quel momento, ripensando all’ideale della perfezione nelle sue omelie sul Discorso della montagna annota: «Nel frattempo ho compreso che uno solo è veramente perfetto e che le parole del Discorso della montagna sono totalmente realizzate in uno solo: in Gesù Cristo stesso. Tutta la Chiesa invece – tutti noi, inclusi gli Apostoli – dobbiamo pregare ogni giorno: rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori» (cfr Retract. I 19, 1-3).
Agostino aveva appreso l’umiltà di riconoscere che a lui stesso e all’intera Chiesa peregrinante era ed è continuamente necessaria la bontà misericordiosa di un Dio che perdona ogni giorno. E noi – aggiungeva – ci rendiamo simili a Cristo, l’unico perfetto, quando diventiamo come lui persone di misericordia, capaci di quell’amore cui ci richiama Gesù nel vangelo: «Amatevi gli uni gli altri, come io vi ho amati».
Agostino morì il 28 agosto 430, a Ippona, oggi sulla costa algerina, quando ancora non aveva compiuto 76 anni. Consumato dalle fatiche pastorali, mentre i Vandali assediavano la città, e costretto a letto dalla malattia, chiese di essere lasciato solo e fece applicare alla parete i Salmi penitenziali per averli sempre davanti agli occhi.
Rendiamo grazie al Signore per averci donato un cercatore di Dio, un discepolo di Gesù e un pastore innamorato della sua Chiesa. Una Chiesa da lui tanto amata e nutrita, intesa come una comunità tutta intenta a vivere nel mondo il comandamento dell’amore. Così diceva ai suoi fedeli per spronarli a vivere nell’amore, e sono parole queste che arrivano dirette al nostro cuore, mentre ci disponiamo a nutrirci dell’Eucaristia: «Voi siete il mistero che si pone sulla mensa del Signore. Ricevete il mistero che siete voi stessi. A ciò che siete, rispondete: amen e rispondendo lo sottoscrivete» (Serm. 272).