V DOPO PENTECOSTE - Lc 13, 23-29


(Gen 18, 1-2.16-33; Lc 13, 23-29)

Seguendo la narrazione biblica di queste domeniche, dopo la creazione, dopo Adamo e Eva e il peccato di Caino che uccide il fratello Abele, oggi incontriamo la storia di Sodoma e Gomorra città che sono come il simbolo del male eretto a sistema, simbolo della malvagità capace di permeare la convivenza civile.

Infatti Sodoma e Gomorra insieme alle altre tre città che insistevano nell’area del mar Morto erano arrivate a tal punto di corruzione, di perversione e di ingiustizia che, secondo il midrash, anche i viaggiatori evitavano queste città. Se poi qualcuno vi capitava per sbaglio provava sulla propria pelle la cattiveria di quella gente. All’inizio gli abitanti ricoprivano d’oro e d’argento i malcapitati, ma negavano loro foss’anche un pezzo di pane. Così che gli sventurati morivano di fame e non appena avevano esalato l’ultimo respiro i cittadini si precipitavano a riprendersi ciascuno il proprio oro, litigando sulla distribuzione dei vestiti del defunto che veniva sepolto nudo.

È solo un’immagine della malvagità di cui è capace l’uomo, e non si tratta del gesto o dell’atteggiamento di uno o di qualcuno che si lascia prendere dall’egoismo… la Genesi ci pone di fronte al male come sistema, eretto a modello di convivenza civile, è il modo di essere di una città, anzi di cinque città. Non a caso appunto un autore contemporaneo ha intitolato con il nome biblico «Gomorra» un romanzo (2006) in cui descrive il sistema camorristico che pervade, come le altre mafie, l’economia, la politica, l’imprenditoria, le amministrazioni locali e non solo nel Sud del Paese, come ci fanno pensare anche le recenti confische di beni mafiosi nel milanese.

Ebbene, di fronte al dilagare del male qual è la nostra reazione? Cosa facciamo? Qualcuno si illude di cambiare le cose invocando ingenuamente soluzioni drastiche, addirittura violente. C’è anche la reazione stanca di chi si è rassegnato a che il mondo sia guasto e non possa cambiare. Oppure quella – che forse va per la maggiore – di chi è indifferente, per il fatto di essere talmente immersi in un certo modo di essere e di fare, che ci si illude di chiamarsene fuori…

Cosa dice la parola di Dio oggi? Cosa può dire Abramo al male moderno, alla mentalità mafiosa, all’indifferenza tanto diffusa che è poi il terreno più fecondo per il diffondersi di ogni forma di ingiustizia e di immoralità?

La parola di Dio oggi mi suggerisce due risposte. La prima è più a carattere generale.

In queste domeniche, andiamo riscoprendo alcune grandi figure del Primo Testamento, andiamo riascoltando le storie, le vicende di personaggi che come Caino e Abele, Abramo… e scopriamo, nonostante siano distanti secoli da noi, che hanno molto in comune con noi. Anzi, se noi ci lasciamo prendere da questi personaggi, non solamente per un’osmosi psicologica, ma per un esercizio di Spirito, e cerchiamo di cogliere come loro hanno vissuto con fede il loro tempo… un po’ alla volta formano la nostra intelligenza e la nostra coscienza e ci aiutano a sentire sempre di più la via di Dio dentro di noi.

Non c’è dubbio che vivendo con alcune persone, noi ci assimiliamo ad esse. L’assimilazione avviene soprattutto quando esistono vincoli di amicizia e di affetto. Così nel modo di fare e di parlare nella stessa famiglia o nello stesso ambiente sociale si può riconoscere un fondo comune. Cosa fanno i ragazzi e le ragazze, oggi come ieri, quando cedono alle ultime mode, si pettinano e si atteggiano come gli attori, i cantanti di successo del momento, perché quello è il mondo in cui desiderano trasferirsi e a cui amano appartenere.

Trasferendoci sul piano spirituale, il mondo della storia della salvezza dovrebbe essere l’ambiente in cui come credenti amiamo vivere. Ascoltare di Adamo e Eva, di Caino e di Abele, di Abramo e di tutti gli altri personaggi che incontreremo, non è una operazione semplicemente culturale, è ripercorrere con loro la nostra stessa vicenda spirituale. Mentre vediamo questi personaggi, ascoltiamo quello che dicono, osserviamo quello che fanno, impariamo a chiedere al Signore, la fede di Abramo, il coraggio e la capacità di discutere con Dio e di farci carico del male del mondo.

Ed è qui che si inserisce la seconda riflessione. Dobbiamo riconoscere che la discussione tra Abramo e il Signore è assolutamente intrigante. Sembra quasi che Abramo faccia un po’ il professore di teologia con Dio. Osservate le prime domande che rivolge all’Eterno: Davvero sterminerai il giusto con l’empio? Lontano da te il far morire il giusto con l’empio così che il giusto sia trattato come l’empio… Lontano da te! Forse il giudice di tutta la terra non praticherà la giustizia?

E noi che andiamo in crisi quando qualche dubbio si affaccia alla nostra mente… osserviamo il coraggio di Abramo: Può Dio, se veramente è Dio e non un tiranno capriccioso, distruggere un’intera città? La domanda è la critica più radicale all’inflessibile meccanismo del giudizio e del castigo, per cui da una colpa nasce sempre una punizione! Se Dio assumendo come criterio la giustizia distributiva, è come tutti noi, allora chi si potrà salvare? Questo si chiedeva quel tale nel vangelo.

Ecco la prima questione che prepara il terreno alla seconda e a mio parere la più rivoluzionaria. Dice Abramo: se tu Dio punisci una città per la colpa di alcuni, non sei più giusto, in quanto punisci con i malvagi anche gli innocenti. E questo è indegno della santità di Dio. Infatti quell’espressione che ritorna tra le due domande, viene tradotta in maniera debole e infedele «Lontano da te… lontano da te». In realtà è un grido: Questo è profano! Questo è profano! Perché se Dio agisse in modo così meschino, sminuirebbe e profanerebbe la sua santità.

Ed è su questa ferma visione di Dio che Abramo diventa un teologo del dissenso. Secondo la concezione tradizionale, un numero esiguo di colpevoli può causare la distruzione di un’intera città, un esiguo numero di peccatori può causare la distruzione di una comunità, mentre l’innocenza vale sempre e solo a titolo personale! Non abbiamo forse dato anche noi il nostro consenso alla teoria della mela marcia?

Ad Abramo questo modo di pensare non va bene, per questo contempla un’altra possibilità e che Dio è tenuto a considerare: la possibilità che gli innocenti abbiano il potere di salvare altri, oltre a se stessi, e di annullare la distruttività della colpa.

Il pensiero di Abramo, che sembra quasi paradossale, si potrebbe sintetizzare così: ovviamente non si possono trattare gli innocenti come i colpevoli, questo sarebbe ingiusto, bisogna invece trattare i colpevoli come gli innocenti, offrendo loro una possibilità di salvezza, perché se i malfattori accettano il perdono di Dio lasciandosi salvare, non continueranno più a fare il male, diventeranno anch’essi giusti, senza più necessità di essere puniti.

E Abramo è talmente convinto di questo suo pensiero che comincia a trattare con il Signore proprio come in un bazar mediorientale, e più piccolo diventa il numero dei giusti, più grande si svela e si manifesta la misericordia di Dio. Abramo arriva a far scendere il numero dei possibili giusti da 50 a 10 (minyan: ancora oggi dieci è il numero minimo di adulti ebrei richiesto per alcuni obblighi religiosi)… Ma i numeri sono secondari. È il principio che conta. E l’esito della disputa è che basterebbe un piccolo esiguo numero di giusti per salvare una comunità, anche se composta in gran parte da colpevoli, perché questo è quello che Abramo chiede: essere salvati non vuol dire semplicemente sfuggire alla punizione, ma essere liberati dal male che ci abita.

In realtà non si riesce a trovare nemmeno un giusto capace di liberare l’umanità e di trasformare il male in bene (Ger 5,1), allora bisognerà che Dio stesso diventi quel giusto. L’infinito e sorprendente amore del Padre sarà pienamente manifestato quando il Figlio di Dio si farà uomo, il Giusto definitivo.

E questo è il mistero della porta stretta, il mistero di un Dio, il solo giusto, che si fa egli stesso uomo fino a scendere nell’abisso del male e del peccato per portarlo su di sé e donare a noi di trasformare il male con il bene. È il messaggio evangelico pieno di speranza per la nostra umanità e che Gesù ripresenta con l’immagine del lievito che fermenta la pasta, ma anche dell’esile luce dell’amore che vince l’enorme ingombro delle tenebre.

Ed è seguendo Gesù, il giusto che è sempre con noi, che assumendo un poco il coraggio e la temerarietà di Abramo, possiamo intercedere per la nostra umanità e per la nostra città.