VI DOPO IL MARTIRIO DI S. GIOVANNI IL PRECURSORE - Mt 20, 1-16


audio 10 otto 2021

Per quale motivo quei lavoratori non se ne sono stati zitti? Anche perché avevano concordato già precedentemente la paga per le loro ore di lavoro, per quale motivo ora si sentono in diritto di recriminare vedendo che gli ultimi arrivati ricevono la loro stessa ricompensa?

Ricordo che Alda Merini ripeteva a tutti quelli che la volevano incontrare: «Amo le persone che sanno scegliere le parole da non dire».

C’è da dire che i lavoratori della prima ora hanno un’attenuante per il semplice fatto che Gesù sembra faccia apposta a non nascondere questa cosa: poteva benissimo cominciare dai primi, così questi se ne sarebbero andati via col loro stipendio e non si sarebbero accorti che gli ultimi arrivati prendevano la stessa paga.

Invece tutto sembra costruito apposta affinché tutti vedessero e si potesse arrivare a quel finale.

Per contro dobbiamo anche dire che i lavoratori della prima ora potevano fare un’altra cosa: lasciarsi interrogare da quel gesto. Potevano rimanere in silenzio e riflettere. Ma lo sappiamo come è difficile fare silenzio, come è difficile stare in solitudine con noi stessi… è molto più facile prendercela con gli altri, trovare da ridire sempre e comunque per non mettersi in discussione.

Se quei lavoratori avessero avuto la capacità di ascoltare cosa si muoveva nel loro cuore, cosa significava quel loro moto di protesta, se anziché assumere un atteggiamento recriminatorio contro il Signore, si fossero chiesti cosa voleva dire quel gesto, avrebbero avuto modo di tornare a casa non solo con lo stipendio, ma anche con un cuore diverso, una riflessione in più.

Dovevano imparare ad ascoltare la loro invidia, quella che Matteo descrive letteralmente come: il loro occhio malato. Questo sì sarebbe stato utile invece di scaricare la loro reazione sul datore di lavoro. Ma a nessuno fa piacere riconoscere di essere abitati dall’invidia, dalla gelosia, dal livore…

Un’occasione mancata dunque, come tante, al punto che mi sembra di percepire in questa parabola una certa delusione e una certa stanchezza da parte di Gesù. “Ma come sono anni che predico, che compio segni e ancora non avete compreso quant’è grande l’amore di Dio?”.

Perché questo è il cuore della parabola destinata a quei funzionari del sacro, a quei tutori della religione che pensano di custodire la verità e di poter decidere in nome e per conto di Dio.

Ma chi gliel’ha dato a costoro questo potere?

Lungo tutto il Vangelo Gesù è andato smantellando la loro presunzione e arroganza, rivelando che il modo di fare di Dio è sorprendente, è affascinante, sconosciuto a coloro che dimenticano che non possiamo costruirci un Dio a nostra immagine e somiglianza. Caso mai siamo noi fatti a immagine e somiglianza sua.

Guardate con quanta delicatezza esordisce la pagina di oggi: il regno dei cieli è simile a… nemmeno osa dire il nome di Dio, ma parla di regno dei cieli, senza rinchiuderlo in una definizione e paragonandolo al padrone della vigna che va in cerca di lavoratori.

Dio agisce come un imprenditore, è un Dio che crea posti di lavoro per la sua vigna che è il mondo, sorprende incontrare un volto di Dio così.

Non dobbiamo infatti dimenticare che la parabola è la risposta a una domanda di Pietro che, nei versetti appena sopra, con una dose di sfacciataggine, rivolge a Gesù dicendogli una cosa che probabilmente i discepoli si chiedevano da un po’ di tempo e ognuno con le proprie aspettative. La domanda è questa: Signore, noi abbiamo lasciato tutto per seguirti, che cosa ne avremo? (19,27).

Non giudichiamo subito male questa richiesta, perché è legittima, è umana. D’altronde i dodici hanno lasciato tutto, come sottolinea Pietro, non è che hanno fatto una passeggiata col filosofo di turno, o hanno ascoltato il predicatore che va per la maggiore e poi ognuno è tornato a casa sua… no! Hanno lasciato tutto: casa, lavoro, affetti, amicizie per seguirlo in questa esperienza itinerante che non dava garanzia alcuna di successo e di futuro.

Comunque, radicati in quell’idea di Dio che premia i buoni e castiga i cattivi, si aspettavano una ricompensa, un qualche vantaggio. Che cosa darà Dio a chi ha avuto la forza e il coraggio di seguire Gesù?

Lo stesso che dà al convertito dell’ultima ora. Non creiamoci aspettative indebite, Dio non ragiona come noi. Non ama le proporzioni tra opera compiuta e ricompensa.

Quello che forse ci dà più fastidio è l’uguaglianza del trattamento. Al v. 12 i lavoratori della prima ora rimbrottano il datore di lavoro, dicendo: Li hai fatti uguali a noi, li hai trattati come noi che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo.

L’uguaglianza del trattamento supera l’immagine dell’imprenditore, per dire che in gioco non c’è una prestazione lavorativa, un obiettivo di produzione, ma c’è la vita e Dio è talmente amante della vita che non fa mancare il suo amore anche a coloro che magari l’hanno sprecata, l’hanno buttata via… eppure anche loro sono figli amati. Dio ama, ma non con le nostre classifiche, non col conteggio dei punti. Ama, e non solo, non smette mai di andare in cerca di chi amare.

Ecco se imparassimo a vivere così ogni giorno. Provate a immaginare se al Sinodo sia quello generale che inizia oggi, che a quello della chiesa italiana che inizierà settimana prossima, si ascoltasse anche la voce dell’ultimo arrivato, venisse portata la testimonianza dell’operaio dell’ultima ora? Perché amato da Dio.

Invece si ascoltano sempre gli stessi, sempre e solo gli addetti ai lavori… come se ci fosse una sorta di monopolio del regno di Dio da parte di alcuni. Molti rimangono fuori dalla chiesa anche perché non si sentono ascoltati, si sentono gli ultimi arrivati e di per sé considerati incompetenti e inadeguati.

Il cammino sinodale dovrebbe poter dire che chi prende parola è parte di un “noi” massimamente inclusivo. Spesso si dimentica che anche sulla comprensione di popolo di Dio ci si è divisi: c’è chi lo ritiene, legittimamente, espressione dei battezzati, ma al tempo del Concilio e subito dopo nacque un dibattito: se la chiamata universale di salvezza da parte di Dio non eleggesse a suo popolo tutta l’umanità. Quale respiro, quale apertura di orizzonti!

Non solo, provate a pensare se anche i nostri cardinali, i vescovi, ma anche gli stessi preti… andassero a cercare, proprio come fa Dio, lavoratori per il regno di Dio, uscendo dai soliti recinti, da quegli ambiti che sono sempre gli stessi per andare sulla strada e nei luoghi abitati da chi non pensa minimamente di essere cercato da Dio.

Mi sembra proprio che questa pagina sia rivolta a noi lavoratori della prima ora, per disturbarci nella sottile convinzione che in fondo Dio ci debba qualcosa, affinché abbiamo a cambiare.

Siamo sempre pronti anche noi a dire quello che devono fare gli altri. Abbiamo le nostre liste di proscrizione e le nostre graduatorie. Ma per fortuna il Dio di Gesù non è così.

Chiedo anzitutto a me stesso di vigilare su questo rischio e di saper coltivare il vero antidoto che è il silenzio e l’ascolto, perché queste sono le condizioni affinché la parola di Gesù ci ribalti profondamente.

Il silenzio è un’esperienza trasformativa, è un esercizio che coinvolge le nostre energie, è preghiera, è ascolto di sé stessi, è sguardo alternativo sul mondo.

Dobbiamo imparare a vedere quello che non si vede. Ecco perché è importante il silenzio, la solitudine. È un modo di stare al mondo.

Non è per questo che preghiamo? Non per chiedere a Dio di fare qualcosa al nostro posto, ma per chiedere a Dio di diventare noi capaci di fare quella che la vita oggi ci chiede, ovvero lavorare perché chiunque possa farsi raggiungere dall’amore di Dio a qualunque ora del giorno e della vita.

Leggevo una frase che mi sembra riassuma bene la parabola di oggi: «Un cristiano senza amore è come un ago senza filo… può pungere e allontanare, ma non riuscirà mai cucire e a unire».

Chiediamo al Signore di renderci lavoratori dallo sguardo limpido, pulito, capace di vedere quanto il suo amore non smetta mai di cercare qualcuno da amare, a qualunque ora del giorno e della vita.

(Mt 20, 1-16)