IX DOPO PENTECOSTE - Mc 8, 34-38


Sarà successo anche a noi o ci sarà capitato di vedere qualcuno infatuarsi dietro a una persona oppure a qualcosa che gli prende tutto, cuore e intelligenza, pensieri e sogni, e questa cosa può essere uno sport, una passione, un ideale… e sperimentare appunto di essere «perdutamente persi».

Nel senso che per realizzare quel desiderio, quella mèta, quel traguardo uno è disposto a perdere la testa, il cuore, il portafoglio… tutto se stesso. Perché se non accade questo, se uno non consegna il cuore, la mente e la volontà al suo obiettivo, non realizza nulla nella vita, sopravvive nella mediocrità, tutto gli rimane estraneo e avvolto su se stesso.

Quando ascoltiamo le parole di Gesù nel vangelo sul «prendere la propria croce e sul perdere la propria vita», le riceviamo spesso come parole tristi e quasi disumane.

Così succede che per molti cristiani «prendere la croce» significhi accettare con rassegnazione le sofferenze che la vita ci fa incontrare, siano esse un’incomprensione, una malattia, un contrattempo… ma per quanto ci sia una profonda dignità in ogni dolore umano e in ogni tipo di sofferenza, la croce non è questo. Non c’è nulla di cristiano in una simile interpretazione, perché ogni persona che viene al mondo ha il suo fardello di fatica e di dolore, di incomprensione e di sofferenza.

Quando Gesù nel vangelo di Marco (8,34-38) invita i discepoli a prendere la croce in realtà li accomuna a se stesso, alla sua croce e lo fa secondo tre passaggi.

  1. Se qualcuno vuol venire dietro a me. Andare dietro a Gesù non è una cosa ovvia, non è una necessità. Anzi, è una possibilità e una libertà tra le tante offerte che la vita ci presenta, tra le tante chances e proposte che ci vengono fatte.

Se vuoi. Gesù lo dice anzitutto a Pietro che poco sopra all’annuncio della sua passione e morte, aveva reagito rimproverando il maestro! Lo vediamo questo grande uomo appassionato che aveva perso la testa e il cuore dietro a Gesù ma che al tempo stesso voleva in qualche modo dirigerlo secondo le sue aspettative, così che quando il Signore annuncia il suo futuro di passione, lo prende in disparte e lo rimprovera: «Non devi dirlo, non ci viene dietro più nessuno, stai attento, rischiamo di mandare tutto all’aria»! Pietro e con lui la chiesa non vorrebbero un Signore simile. La protesta di Pietro è la tentazione di strappare la chiesa dalla croce del suo Signore. Ed è una tentazione sempre possibile.

Ma è proprio nella tentazione che si esercita la libertà del discepolo: Se qualcuno vuole.

  1. Rinneghi se stesso. Ecco la seconda cosa. Come Pietro quando rinnegò Gesù disse: io non conosco quest’uomo, così chi vuole seguire Cristo deve parlare a se stesso.

Il rinnegamento di se stessi non è questione di singoli atti di martirio autoimposto o di esercizi ascetici: non si tratta di suicidio perché anche in questo potrebbe prevalere ancora la filautia, l’egocentrismo dell’uomo. Rinnegare se stessi vuole dire conoscere solo Cristo, non vedere più se stessi, ma vedere solo lui che precede e non più la vita che è troppo difficile per noi. Rinnegare se stessi significa: lui precede, tienti stretto a lui!

  1. In terzo luogo prenda la sua croce. La croce non è come dicevamo prima la fatica del vivere, il dolore e le sofferenze che sono il bagaglio di ogni essere umano. La croce è il dolore che ci colpisce solo a causa del nostro attaccamento a Gesù. Non è un dolore casuale, ma necessario. La croce non è il dolore insito nella nostra esistenza, per il fatto che non siamo contenti, perché non vogliamo invecchiare, perché… anche perché la croce non è solo dolore, è anche quello che ha significato per Gesù, ovvero essere respinti, essere posti ai margini della città.

La croce è la croce di Cristo: il prezzo da lui pagato per amore della sua missione al servizio dell’uomo. Per questo la croce è già lì pronta sin dall’inizio, quando uno ha scelto di diventare cristiano, basta prenderla. Non dobbiamo pensare di cercarci da noi una croce. Gesù annuncia che per ognuno è pronta la sua croce, perché la misura di dolore per il fatto di seguire Gesù è una misura diversa per ciascuno di noi.

Seguire, vuol dire legarsi a Cristo nella sua passione. Il contrario del seguire Gesù è il vergognarsi di lui, scandalizzarci della croce, vergognarsi del Vangelo.

Che è lo stesso sentimento che abbiamo incontrato nella prima lettura (2Sam 6,12-22), quando Mical, figlia di Saul e regina mancata, si vergogna del re Davide che danzava con tutte le forze, cinto di un efod di lino mentre facevano salire l’arca dell’alleanza in Gerusalemme.

Dal punto di vista umano, ha ragione Mical: non si addice al re un atteggiamento simile, chissà cosa pensa la gente!

Per Davide non è così, perché dopo averne passate di ogni prima con i filistei, poi con Saul stesso, riesce finalmente a realizzare una certa unità delle dodici tribù di Israele costituendo Gerusalemme capitale politica, militare e religiosa, il fatto di portarci l’arca che dai tempi di Mosè aveva accompagnato il cammino nel deserto come memoriale dell’esodo, perché si custodivano le tavole, la manna… era dettato dalla gratitudine al Signore, al punto che vediamo il re cinto di un efod di lino, praticamente in mutande, danzare con tutte le forze intorno all’arca!

Un re che ha perso testa e dignità… per il Signore!

Ma, c’è sempre un ma, Mical figlia di Saul, spiando dalla finestra – lei sì che è di sangue blu – disprezza in cuor suo Davide. Come ben sappiamo il disprezzo non rimane chiuso nell’intimo, prima o poi emerge e diventa atteggiamento e parola e così accade: «bella roba un re in mutande che balla davanti al popolo!».

E Davide: «Mi abbasserò anche più di così». Per Dio questo e altro, sembra dire Davide. Gli fa eco Paolo (1Cor 1, 25-31): Ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini.

E noi siamo sempre in questa condizione di dover decidere tra l’assecondare la logica del mondo e quella della sapienza di Dio.

Potremmo domandarci: c’è stato un qualche momento della vita in cui per essere fedele a ciò in cui credo, al Vangelo mi sono misurato con la sapienza del mondo e magari ci è capitato di essere rifiutati, messi ai margini proprio per la nostra fedeltà alla parola di Gesù?

Domandiamoci ancora: sono riuscito ad amare anche quando non ho avuto alcuna risposta, alcuna gratifica, alcuna riconoscenza, alcuna autoaffermazione? Sono stato capace di amare, con la tremenda sensazione di essere considerato un ingenuo, un idealista oppure di essere rimasto ingannato e, addirittura, sfruttato?

Questo succede anche alla chiesa stessa. Succede che se uno vive davvero il vangelo non sempre viene compreso, perché non si vorrebbe che la chiesa abbracciasse la croce di Cristo. Si vorrebbe una chiesa potente, con i suoi privilegi nel mondo… era questo il pensiero di Pietro subito smentito da Gesù.

Ma così facendo consegneremmo alla storia un cristianesimo ingessato, tutto preso da se stesso, dalla propria riuscita, dal proprio successo nel mondo. Gesù chiede ai suoi discepoli di sempre di rinnegare se stessi, di essere pronti a pagare il prezzo della propria croce per seguirlo…

Se Davide avesse ascoltato il cosiddetto “rispetto umano” (chissà cosa dirà il popolo, chissà cosa penserà la gente…), non avrebbe mai danzato con tutte le sue forze!

Prendere la croce e seguire Gesù sono i verbi della danza: vuol dire vivere la vita senza imporre il proprio ritmo, il proprio tempo, ma abbandonarsi fiduciosi a quelle braccia che danno l’andatura e il passo per la danza.