III DOPO IL MARTIRIO DI S. GIOVANNI IL PRECURSORE - Lc 9, 18-22
Verrebbe da pensare dopo aver ascoltato questa pagina di Luca (9,18-22) che Gesù dia voce alla sua inquietudine, come se stesse attraversando un momento di incertezza e quindi avesse bisogno di conferme dai suoi amici. Cosa pensa la gente di me? E voi chi dite che io sia?
Anche a noi talvolta succede di avere bisogno della rassicurazione da parte di chi abbiamo vicino… di cercare con le persone che ci sono accanto e che ci vogliono bene, una conferma ai nostri dubbi, una risposta alle nostre ansie.
Ma dobbiamo riconoscere che non è proprio questo il caso, almeno per quanto riguarda Gesù. Egli infatti ha ben chiaro dove vuole arrivare, è pienamente consapevole di sé tant’è che al termine di questo capitolo, scrive Luca, Gesù prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme (v.51).
Non è dunque un momento di debolezza da parte del Cristo, probabilmente ne avrà avuti e ne avrà ancora di momenti così come l’ultima sera al Getsemani, ora qui c’è in gioco qualcosa di più che riguarda lui e che interessa anche a noi.
La domanda di Gesù ai suoi vuole misurare lo scarto tra ciò che Gesù ha in mente e le aspettative dei discepoli, in fatti quando Pietro risponde con prontezza: Tu sei il Cristo di Dio, in quel momento non voleva fare una professione di fede, come noi possiamo facilmente pensare. Pietro dà voce alle aspettative sue e della gente che riponevano la loro speranza nell’arrivo di un personaggio che in qualche modo avrebbe dato una svolta alla situazione.
Attendevano un Messia, ma quale Messia? Quale Cristo? Oltre tutto ai tempi di Gesù l’attesa non era affatto univoca: c’era chi aspettava un Cristo regale, un re in grado di soppiantare Erode e forsanche Augusto; c’era chi aspettava un Cristo sacerdote, un prete che col rinnovamento del culto avrebbe dato unità al popolo; c’era chi aspettava un Cristo profeta, un Cristo maestro…
Fino al 70, anno della conquista di Gerusalemme da parte delle truppe di Tito, i messianismi erano diversi, rispondevano ad attese diverse… è solo dopo il 70 che si arrivò a un’idea più coesa e precisa.
Prendiamo atto anzitutto che Gesù non ha mai detto di sé stesso: sono io il Messia, sono io il Cristo! Sono sempre gli altri a dirlo, come Pietro nel passo di oggi. Comunque la risposta di Gesù a Pietro e agli altri è di stare zitti. Non dite questa cosa. Perché?
Lo spiega subito dopo: perché queste vostre idee di Messia o di Cristo non sono applicabili a me. Il Figlio dell’uomo deve soffrire molto… venire ucciso e risorgere.
Ora uno che vuole liberare, che vuole guidare la rivoluzione, che vuole cambiare le cose deve avere un progetto preciso, deve darsi un piano strategico, avrà in mente una tattica delle azioni da mettere in campo, deve trovare i finanziamenti e stabilire le alleanze sulle quali deve poter contare….
Gesù nega tutto ciò. Dicendo a Pietro: stai zitto, si pone su un piano altro, diverso perché in un messia che soffre si condensa tutto il peggio di cui siamo capaci, vale a dire l’ingiustizia, la violenza e la morte.
Il messia così come lo vive Gesù non è il fare di un prete, non è l’esercizio del potere di un re… è l’agire di uno che guarisce, che fa miracoli, che racconta parabole, ma soprattutto di uno che per amore, è disposto a condensare su di sé il male, la violenza, l’ingiustizia, finanche la morte.
Il vangelo è questa cosa qui: vivere per amore, vivere per la giustizia, vivere per il rispetto. Leggo così la testimonianza drammatica di questi giorni della morte del giovane Willy, massacrato di botte a 21 anni perché voleva mettere pace, voleva ricondurre al dialogo un conflitto, cercava il rispetto.
Willy ha pagato con la vita ciò in cui credeva ed è cresciuto. E se penso ai suoi genitori che piangono lacrime inconsolabili vorrei dire loro di non rimproverarsi mai e poi mai di averlo cresciuto così, con la voglia di lavorare, pronto a difendere un amico da un’ingiustizia… di averlo educato diversamente dalla mentalità propria di chi impara a far finta di niente e a farsi i fatti suoi. Questo è un brodo culturale che ci va inondando, una brodaglia razzista e fascista nei confronti della quale siamo troppo indulgenti.
Quando Gesù, costretto a portare la croce mentre sale a fatica verso il luogo della sua esecuzione, incontra le donne che piangono – e Dio sa di quanto coraggio c’è bisogno per piangere per le ingiustizie – dice loro: Non piangete su di me, ma piangete su voi stessi e sui vostri figli (Lc 23,38).
Oggi comprendo meglio quelle parole e mi rendo conto perché dobbiamo piangere su noi, anzitutto su noi adulti, su noi genitori, su noi educatori, insegnanti, giudici, medici, professionisti, anche su noi preti, su noi chiesa…. perché siamo, come dice papa Francesco, i devoti di Ponzio Pilato.
Cosa abbiamo insegnato in questi anni? Che è meglio lavarcene le mani, che conviene pensare solo a noi, alla nostra famiglia, al nostro giro, al nostro gruppo e non a pensare in grande, a sognare e a lottare per il bene comune, per la giustizia e il futuro dell’umanità e del mondo. Abbiamo educato i nostri figli a pensare che non c’è nulla per cui valga la pena dare la vita, se non la propria riuscita, il proprio successo e il proprio divertimento.
E poi Gesù ci dice che dobbiamo piangere sui nostri figli. Non ci rimane che piangere dopo aver permesso che riempissero il loro nulla di testosterone in palestra e il vuoto della loro anima di cocaina e di pasticche. C’è di che piangere!
Ma dopo aver pianto, irrompe Gesù con la sua domanda: ma tu cosa pensi che io sia? Perché ho dato la mia vita? Per chi?
Perché tu mi accenda le candele in chiesa? o piuttosto per costruire un mondo migliore, disposto a metterci del tuo, a pagare di persona?
Se ripenso a Willy, la sua vita e anche la sua morte raccontano come nel vuoto si possa stare diversamente dai fratelli Bianchi e dalla loro banda. Possiamo riempire questa umanità di bellezza e di meraviglia con il lavoro duro, l’amicizia, un’idea di domani, persino con un sorriso. Quel sorriso. Il sorriso che sfida la paura e che è il coraggio che non viene dai muscoli perché abita nell’anima.
Tertulliano diceva che il sangue dei martiri è il seme dei cristiani. Il sangue di Willy può essere seme di una nuova umanità, se penso a quei giovani che faticano sui libri, che studiano, che lavorano e che costruiscono amicizie, che amano e che soffrono, che si prendono cura della casa comune, che sognano un mondo migliore, diverso più giusto e più rispettoso del creato.
E meno male che ci sono loro, perché il mondo che noi consegniamo loro è quello che rinchiude migliaia di poveri in campi profughi a fare la fame e a vivere in condizioni disumane. Questa è la nostra cura, di questo siamo capaci noi adulti, noi popoli sviluppati. Non ce ne importa nulla del grido che sale dalle migliaia di profughi del campo di Moria dell’isola di Lesbo (13 mila persone, in uno spazio pensato per contenerne massimo 2.500 – tra cui più di 4.000 bambini – senza alcuna protezione, acqua, cibo, assistenza), non ascoltiamo il grido dei bambini che sale dalle miniere del Congo…
Sono questi poveri la voce di Gesù che ci ripropone la domanda: ma tu che Dio vai cercando? Un Dio da immaginetta, un Dio “oggetto di culto”, un Gesù venerabile icona, dal volto maestoso, ma da cui sono stati cancellati i tratti di quell’uomo che percorse le strade di Galilea negli anni trenta del primo secolo con il coraggio e il sorriso dell’uomo giusto, attento ai poveri e disposto a pagare con la vita?
Avverto per me e lo condivido con voi, al termine di questa riflessione la necessità di tornare a contemplare, a gustare il silenzio. Il vangelo di oggi inizia con un’annotazione che sembra di routine: Gesù si trovava in un luogo solitario a pregare. Troviamo il tempo e il luogo adatti per contemplare. Il nostro sguardo sulla realtà è sempre più veloce, distratto, superficiale, mentre in poco tempo si bruciano le relazioni, le notizie, le foreste! Siamo malati di consumo. Per non sprecare i nostri giorni, per non consumarli in mille distrazioni, per correggere la cultura dell’apparenza e della violenza, impariamo ad avere momenti di solitudine e di silenzio. Non è facile, lo so. Ci vuole il coraggio e l’audacia che ebbe Martini, quando l’8 settembre 1980 pubblicò la sua prima lettera pastorale dal titolo: La dimensione contemplativa della vita. L’invito è chiaro: non si tratta tanto di mettere la contemplazione nella vita, ma di imparare a contemplare la vita.
Come adulti continuiamo ad alimentare la retorica secondo cui chi non è sempre stanco morto, chi non corre di qua e di là, chi non è sempre iperattivo ed eccitato è uno sfaccendato, un buono a nulla. Così uno non è considerato né un imprenditore capace, né un impiegato efficiente, tantomeno un pastore appassionato e dedito al suo gregge. Martini chiedeva a tutti di imparare a contemplare la vita, e di smetterla con l’atteggiamento dell’apparire, del funzionare, della prestazione perché, scrive Martini con espressione folgorante, la preghiera è percezione della realtà.
Se vogliamo smetterla di essere devoti di Ponzio Pilato, se vogliamo davvero che il sorriso di Willy contagi i nostri giovani, torniamo a contemplare la vita e impareremo il rispetto, la cura per il bene comune, la passione per l’umanità.